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 2013  ottobre 14 Lunedì calendario

IL 1913, UN ANNO FORMIDABILE CIECO DAVANTI ALLA CATASTROFE


Nel marzo del 1913, il professor Jacques-Ambroise Monprofit riferì sul «Figaro» di una sua visita agli ospedali militari della Grecia e della Serbia. Aveva notato che «le ferite causate dai cannoni venduti dalla Francia agli Stati balcanici, e da loro utilizzati, non soltanto erano le più numerose, ma anche le più gravi, con fratture ossee, lacerazione di tessuti, sfondamento di casse toraciche e crani frantumati». Le sofferenze prodotte da quei cannoni erano così devastanti, che un esperto di chirurgia militare, Antoine Depage, ne propose un embargo internazionale. Ma la risposta unanime fu un no. Quel potenziale di morte doveva servire da deterrente contro ogni ipotesi di guerra. «Comprendiamo quale sia la generosa motivazione della proposta di embargo», commentò un editorialista del «Figaro», «ma se dobbiamo attenderci che un giorno saremo sovrastati numericamente sul campo di battaglia, allora è bene che i nostri nemici sappiano che abbiamo simili terribili armi con cui difenderci». Alla vigilia della Prima guerra mondiale, scrive Cristopher Clark in I sonnambuli. Come l’Europa arrivò alla Grande guerra (di imminente pubblicazione per i tipi di Laterza, nella traduzione di David Scaffei), «è possibile trovare riflessioni così disinvolte pressoché ovunque». Si può davvero dire che «i protagonisti del 1914 erano dei sonnambuli, apparentemente vigili e però non in grado di vedere, tormentati dagli incubi, ma ciechi di fronte alla realtà dell’orrore che stavano per portare nel mondo». Sì, ciechi.
Eppure questi sonnambuli avevano dato vita ad un universo di talenti intrecciati l’uno con l’altro, un mondo unico, zeppo di coincidenze straordinarie e per certi versi magico. È quel che ha provato a dimostrare lo storico dell’arte Florian Illies in un altro magnifico libro di imminente pubblicazione: 1913. L’estate del secolo (Marsilio). Che cosa ha avuto di particolare quell’anno, l’ultimo prima dello scoppio della guerra? L’Europa si è riempita di personalità ineguagliabili. Nel gennaio del 1913 è probabile che l’esiliato Josif Stalin e Adolf Hitler si siano sfiorati mentre passeggiavano (era una loro abitudine) nel parco viennese di Schönbrunn. Sempre a Vienna, in febbraio, Stalin e Lev Trotzkij si incontrano per la prima volta, proprio nel momento in cui a Barcellona nasce Jaime Ramon Mercader, l’uomo che ucciderà Trotzkij per conto di Stalin. In quegli stessi giorni Vladimir Lenin scrive a Maksim Gorkij: «Una guerra fra Austria e Russia potrebbe essere molto utile alla rivoluzione in Europa; solo è difficile immaginare che Francesco Giuseppe e lo zar Nicola vogliano farci questo piacere». Il 1913 è l’anno in cui a Monaco Oswald Spengler, suggestionato dal naufragio del Titanic avvenuto nel 1912, inizia a scrivere Il tramonto dell’Occidente . L’anno in cui Pablo Picasso e Georges Braque passano al «cubismo sintetico». In cui si avrà la definitiva rottura tra Sigmund Freud e Carl Gustav Jung («Le propongo di cessare completamente i nostri rapporti privati; io non ci perdo nulla, perché ormai da lungo tempo ero legato a lei soltanto dal filo sottile delle delusioni», scriveva in gennaio il maestro all’allievo).
È la stagione in cui, oltre a Freud, a Vienna davano eccezionale prova di sé Arthur Schnitzler, Egon Schiele, Gustav Klimt, Adolf Loos, Karl Kraus, Otto Wagner, Hugo von Hofmannsthal, Ludwig Wittgenstein, Georg Trakl, Arnold Schönberg, Oscar Kokoschka. Tra loro si stabilisce una rete di curiose interrelazioni. Che ingloba Robert Musil, a cui un medico diagnostica «chiari segni di nevrastenia» («Ma quella che nel 1913 diventa malattia mentale», annota nel proprio diario l’autore de I turbamenti del giovane Törless parlando di Dante Alighieri, «nel Duecento potrebbe essere stata considerata una semplice manifestazione di eccentricità»). La rete si estende anche fuori da Vienna. A Praga un altro «nevrastenico» eccellente, Franz Kafka («Voglio curarmi mediante il lavoro», scrive all’amico Max Brod), e Albert Einstein, che ha lasciato la città alla fine del ‘12; a Berna Hermann Hesse; in Inghilterra Virginia Woolf, che nel pieno di una depressione porta a termine La crociera (fino al 1929 ne venderà solo 479 copie). In Germania Thomas Mann, a Parigi Rainer Maria Rilke. Marcel Proust pubblica il primo volume della Ricerca del tempo perduto («La vita è troppo breve e Proust troppo lungo», lo stronca Anatole France). E ancora a Berlino George Grosz, a Monaco Vasilij Kandinskij che stringe amicizia con Paul Klee, nella capitale francese Robert Delaunay, Frantisek Kupka e Marcel Duchamp, in Russia Kazimir Malevic, in Olanda Piet Mondrian.
Il 1913 è l’anno in cui Albert Schweitzer vende tutti i suoi beni e si trasferisce in Africa. Walter Gropius pubblica i Progressi della moderna architettura industriale . Igor Stravinskij festeggia la prima de Le sacre du printemps . Max Weber conia l’espressione «disincantamento del mondo». Edmund Husserl dà alle stampe I dee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica . Ludwig Mies van der Rohe apre il suo studio di architettura a Berlino. Di nuovo a Parigi André Gide, Igor Stravinskij e Jean Cocteau assistono assieme alle prove del balletto di Nizinskij su coreografie di Djagilev e musica di Claude Debussy: litigano con gli artisti perché definiscono lo spartito «esile» e il costume del ballerino «effeminato e ridicolo». Alla prima assiste Gabriele d’Annunzio, giunto in Francia per fuggire dai creditori italiani. Giorgio de Chirico dipinge Piazza d’Italia . Franz Wedekind si rifugia a Roma dopo il divieto di mettere in scena Lulù («Ma se ci si vuole divertire, meglio andare a Parigi», scrive alla moglie Tilly).
Verso la fine dell’anno tutto si fa più cupo. Carl Schmitt prende nota di una intenzione suicida: «A nessuno importa niente, a nessuno importa di me, a me non importa di nessuno», scrive. Walther Rathenau dedica il suo libro Meccanica dello spirito alle «nuove generazioni». Il 20 novembre Kafka annota nel suo diario: «Al cinematografo. Ho pianto». Il 15 dicembre Ezra Pound scrive a un James Joyce pressoché sconosciuto e povero in canna per chiedergli qualcosa da pubblicare: «Egregio signore, stando a quanto mi dice Yeats, potrei quasi pensare che io e lei siamo accomunati da qualche avversione», gli dice. Poche settimane dopo Joyce gli invia Ritratto dell’artista da giovane e Gente di Dublino . Il 31 dicembre Arthur Schnitzler confida al proprio taccuino di aver finito di dettare la novella Follia , di aver letto un libro di Ricarda Huch sulla guerra in Germania (quella del 1870) e di aver trascorso una «giornata molto nervosa».
Il ritratto che Florian Illies traccia dell’ultimo anno di pace è davvero fuori dal comune. Decine, centinaia di storie offrono il quadro di un concentrato di geni (e qui ne abbiamo tralasciati moltissimi) probabilmente unico nella storia dell’umanità. Geni che si affacciarono al 1914 con qualche presentimento di quel che stava per accadere. Anche se tutti loro lo percepivano come qualcosa di individuale che atteneva alla sfera della melanconia, di un qualche turbamento del proprio sistema nervoso. Così come i loro governanti. Tanto che, quando poi scoppiò la guerra, le classi dirigenti fecero fatica ad accorgersi di quel che stava davvero accadendo. Qualcuno, come il corrispondente del «Times» Henry Wickham Steed, dirà poi — ricorda Christopher Clark — d’aver avvertito lo scricchiolio. In una lettera, del 1954, Wickham Steed scriverà al direttore del «Times Literary Supplement» che quando nel 1913 aveva lasciato l’Impero austro-ungarico, aveva «sentito» che «stava scappando da un edificio destinato alla fine» (ma nel 1913 aveva scritto tutt’altro e cioè che «in dieci anni di osservazione e di esperienza» non aveva percepito «nessuna ragione sufficiente» per cui la monarchia asburgica «non dovesse mantenere il suo legittimo posto nella comunità europea»).
All’epoca dello scoppio della guerra dunque il livello di consapevolezza fu assai scarso. Tant’è che, nota Clark, in Francia la notizia di Sarajevo venne di fatto scalzata dalle prime pagine dei giornali dallo «scandalo Caillaux». In marzo madame Caillaux, moglie dell’ex primo ministro Joseph Caillaux, era entrata nell’ufficio del direttore del «Figaro», Gaston Calmette, e gli aveva sparato sei colpi. Il movente del delitto era, a detta della sparatrice, la campagna che il quotidiano aveva condotto contro suo marito, pubblicando fra l’altro le lettere d’amore che la signora aveva scritto al futuro coniuge quando lui era ancora sposato con la prima moglie. Il processo avrebbe dovuto aprirsi il 20 luglio «e l’interesse del pubblico per questa vicenda, che univa uno scandalo a sfondo sessuale e un crime passionnel commesso da una donna molto in vista nella vita pubblica francese, fu naturalmente immenso». Ancora il 29 luglio, l’importante «Le Temps» dedicò all’assoluzione di madame Caillaux (decretata in base alla tesi secondo cui «la provocazione era un elemento tale da giustificare il delitto») un rilievo doppio rispetto a quello riservato alla crisi che di lì a qualche giorno avrebbe trascinato in guerra l’intera Europa.
«Non riuscirò mai a capire come sia potuto accadere», disse al marito la scrittrice Rebecca West 22 anni dopo, mentre si trovavano sul balcone del municipio di Sarajevo. Non perché non sapesse individuare le cause dello scoppio del conflitto, ma perché ce n’erano «troppe». Un po’ come quello che ha rischiato di accadere ai giorni nostri (e forse rischia ancora) con la crisi finanziaria europea. «È singolare», scrive Clark, «che gli attori della crisi dell’Eurozona, come quelli del 1914, siano stati consapevoli dell’esistenza di un possibile esito dalle conseguenze catastrofiche (la fine dell’euro); tutti i principali protagonisti speravano che ciò non sarebbe accaduto, ma oltre a questo comune interesse, ne avevano anche molti altri particolari, fra loro contrastanti, e in un sistema in cui esistono molteplici interrelazioni, le conseguenze di qualsiasi azione di un elemento dipendono dalle reazioni degli altri, che sono difficili da valutare in anticipo, data la scarsa chiarezza dei processi decisionali». Così «nel corso di tutto il processo, i soggetti politici dell’Eurozona hanno sfruttato la possibilità di una catastrofe generale come strumento su cui far leva per assicurarsi i propri specifici benefici». Oggi come allora.
A un secolo dallo scoppio della Prima guerra mondiale, fioriscono parallelismi, al punto che si può quasi dire che, alla fine del 2013 più che mai, quegli uomini del 1914 appaiono come «nostri contemporanei». Ma è sempre stato così? No. Si può affermare, secondo Clark, che il luglio del 1914 «è meno distante da noi – meno illeggibile – di quanto non lo fosse negli anni Ottanta». Dopo la fine della guerra fredda, un sistema globale di stabilità bipolare ha lasciato il posto ad una più complessa e imprevedibile varietà di forze, ivi compresi imperi in declino e potenze in ascesa, una situazione che invita al confronto tra l’epoca attuale e quella di cento anni fa. Si tratta di semplici somiglianze, niente di più.
Un esempio: dopo l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, gli amici della Serbia non concessero a Vienna il diritto di inserire nelle sue richieste a Belgrado uno strumento per controllare e far rispettare l’adempimento degli obblighi previsti. Le pretese in tal senso furono respinte in quanto «inconciliabili con la sovranità serba». Come è accaduto, secondo l’autore, con il dibattito svoltosi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu nell’ottobre 2011 su una proposta — caldeggiata dagli Stati membri della Nato — di imporre sanzioni alla Siria di Assad per prevenire ulteriori massacri degli oppositori al regime di Damasco. E di morti all’epoca il despota siriano ne aveva già provocati quasi trentamila (adesso sono oltre centodiecimila). Ma il rappresentante della Russia sostenne che quella proposta rispecchiava un inappropriato «approccio aggressivo» tipico delle potenze occidentali, mentre secondo l’emissario cinese alle Nazioni Unite le sanzioni erano inaccettabili in quanto non potevano conciliarsi con la «sovranità» siriana.
Ancora. 95 anni fa, il fatto che una Jugoslavia a predominio serbo fosse tra gli Stati vincitori della guerra, sembrò implicitamente scagionare l’atto dell’uomo che il 28 giugno premette il grilletto contro l’arciduca austriaco e sua moglie. In un’epoca in cui l’idea nazionale era ancora viva e densa di promesse, «si manifestò un’istintiva simpatia per il nazionalismo degli slavi del Sud e un sentimento di segno opposto nei confronti del multinazionale Impero asburgico» Le guerre jugoslave degli anni Novanta hanno modificato quest’ottica, ricordandoci tutto il potenziale di pericolosità contenuto nei nazionalismi balcanici. Adesso le cose stanno in modo diverso. Dopo «eventi come quello di Srebrenica e l’assedio di Sarajevo, è diventato più difficile pensare alla Serbia come a una semplice pedina o vittima della politica delle grandi potenze, e di conseguenza è diventato più facile concepire il nazionalismo serbo come un’autonoma forza storica». Dall’odierna prospettiva dell’Unione Europea, scrive Clark, siamo portati a guardare «con maggior simpatia — o almeno con minor disprezzo — di un tempo» all’ormai scomparso mosaico imperiale dell’Austria-Ungheria asburgica.
Altra possibile analogia, tra allora e oggi, sta nell’«indebolimento complessivo della politica». Di fatto, secondo Clark, non si può neanche dire con certezza che il termine «politica» sia sempre appropriato in relazione al contesto pre-1914, «dato il carattere approssimativo e ambiguo di molti degli obblighi in essere». È assai discutibile che nel biennio che precedette il 1914, Russia e Germania avessero un’autentica politica balcanica: ci troviamo in presenza di una molteplicità di iniziative, di scenari e di atteggiamenti, in base ai quali «risulta talvolta difficile scorgere un chiaro orientamento complessivo». All’interno dei rispettivi esecutivi statali, «la variabilità dei rapporti di potere faceva anche sì che coloro i quali formulavano la linea politica operassero sotto una notevole pressione interna, proveniente non tanto dalla stampa, dall’opinione pubblica, da gruppi di interesse industriale o finanziario, quanto dagli avversari interni alle loro stesse élites o ai governi».
Infine, oggi «è forse più facile vedere che non è opportuno liquidare l’uccisione di Sarajevo come un semplice incidente non in grado di condizionare gli eventi». L’attacco alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001 ha mostrato come un unico, simbolico evento — per quanto profondamente intrecciato a processi storici più vasti — «possa modificare irrevocabilmente le dinamiche politiche, rendendo obsolete le vecchie opzioni e conferendo alle nuove un’imprevedibile urgenza». Rimettere Sarajevo e i Balcani al centro della vicenda non significa demonizzare i serbi, né i loro statisti e neppure sottrarsi all’obbligo di comprendere le forze che operarono su quei politici, ufficiali e attivisti serbi che con il loro comportamento e le loro decisioni contribuirono a determinare le conseguenze di quello sparo iniziale.
In questo senso va accantonato una volta per tutte il concetto di colpa e di responsabilità per l’inizio della guerra. Tutte le fonti documentarie sono zeppe di attribuzioni di colpa («Era un mondo in cui le intenzioni aggressive venivano sempre addebitate all’avversario, e quelle difensive attribuite a se stessi», scrive Clark) e il giudizio enunciato dall’articolo 231 del trattato di Versailles contribuì a far sì che la questione della «colpa della guerra» rimanesse in primo piano. Oggi, continua Clark, non ha senso alcuno avvicinarsi a un libro sulla Grande guerra come si fa con un giallo di Agatha Christie, cioè confidando che nelle ultime pagine si conoscerà il colpevole. Una delle tante ragioni di demerito del trattato di pace di Versailles fu quella di aver individuato, all’articolo 231 appunto, negli sconfitti i responsabili della guerra. Lo scenario balcanico da cui scaturì il conflitto «non fu il risultato di una politica né di un piano o di un complotto maturato costantemente nel corso del tempo», né vi fu alcuna relazione di necessità fra le posizioni adottate nel 1912 e nel 1913 e l’entrata in guerra l’anno successivo.
Lo scenario balcanico — «che di fatto era uno scenario serbo» — non spinse l’Europa verso la guerra che poi sarebbe effettivamente scoppiata nel 1914: «Esso piuttosto fornì il quadro concettuale all’interno del quale la crisi venne interpretata una volta che si aprì». Ed è nel contesto di quel quadro concettuale che poté accadere che la Russia e la Francia legassero, «in modo estremamente asimmetrico», la sorte di due fra le maggiori potenze mondiali ai destini di uno Stato turbolento e a tratti violento quale era appunto la Serbia. La ricerca della colpa «predispone chi indaga a interpretare a priori le decisioni dei responsabili politici come fossero pianificate in anticipo e mosse da un intento coerente». Bisogna mostrare che chi ha causato la guerra aveva la consapevole volontà di farlo. Nella sua forma estrema, questo modo di procedere genera racconti influenzati dall’idea del complotto, nei quali una ristretta cerchia di individui potenti, «come i cattivi dei film di spionaggio», controlla gli eventi da dietro le quinte, seguendo il copione di un piano perverso. Si può capire «la soddisfazione morale che tali ricostruzioni possono comportare», e ovviamente a lume di logica non è impossibile che nell’estate del 1914 la guerra sia scaturita da un processo del genere, solo che, a seguito di un vaglio accurato, va detto nel modo più netto che tale interpretazione «non è sostenuta da elementi di fatto».
Eppure gran parte dell’immensa mole di ricostruzioni dell’antefatto, svolgimento e conseguenze della Prima guerra mondiale deve fare i conti con la nozione di «colpa», con la ragion politica più che con la libera ricerca storica. Soprattutto tra le due guerre, allorché la Germania pubblicò un’opera in quaranta volumi, che comprendeva 15.889 documenti suddivisi in trecento aree tematiche, al solo scopo di confutare la tesi colpevolista del trattato di Versailles. La Francia, per parte sua, fece lo stesso e il ministro degli Esteri Jean-Louis Barthou, nel 1934, ammise che la pubblicazione di documenti predisposta dal governo di Parigi aveva un «carattere essenzialmente politico». A Vienna il condirettore della collana che pubblicò i documenti austriaci, Ludwig Bittner, nel 1926 spiegò che si era proceduto in tal senso prima che qualche organismo internazionale li obbligasse a farlo «in circostanze meno favorevoli». Anche a Vienna dunque la spinta fu interamente politica. Così come in Russia. Le prime raccolte di documenti di parte sovietica furono almeno parzialmente motivate dal desiderio di ricondurre allo zar, e al «suo amico Raymond Poincaré» (il presidente francese), la responsabilità di aver iniziato la guerra «sperando con ciò di delegittimare le richieste francesi di rimborso dei prestiti prebellici». La Gran Bretagna invece annunciò che avrebbe pubblicato tutto, anche ciò che fosse politicamente sconveniente, ma presto si poté constatare che «la raccolta documentaria data alle stampe presentava tendenziose omissioni, tanto da offrire un quadro non del tutto equilibrato del ruolo che gli inglesi avevano avuto negli eventi che precedettero lo scoppio della guerra». Un immenso caos che, già nel 1929, lo storico militare tedesco Bernhard Schwertfeger definì «guerra mondiale dei documenti».
Per non parlare poi dei macroscopici casi di reticenza. Nelle Considerazioni sul conflitto pubblicate nel 1919, il cancelliere tedesco Theobald von Bethmann Hollweg non dice pressoché nulla sui comportamenti suoi e dei suoi colleghi nel luglio del 1914, il mese decisivo che precedette lo scoppio della guerra vera e propria. Le memorie del ministro degli Esteri russo, Sergej Sazonov, in alcuni punti sono ad ogni evidenza mendaci. I dieci volumi delle memorie di Poincaré «sono attenti più alla propaganda» che a rivelare notizie di una qualche sostanza. E si riscontrano «sorprendenti discrepanze» fra i «ricordi» dell’ex presidente in merito agli eventi e le note che all’epoca aveva scritto nel suo diario. «Vaghe» vengono giudicate da Clark le «pur piacevoli» rimembranze di sir Edward Grey, già ministro degli Esteri britannico. Ci sono poi gli infiniti casi che stanno lì a dimostrare i riaggiustamenti delle memoria. Nessuno ricordava di aver fatto degli sbagli.
Quando alla fine degli anni Venti lo storico americano Bernadotte Everly Schmitt venne in Europa per parlare con i protagonisti dei fatti di 15 anni prima, Grey fu l’unico che ammise di aver commesso qualche errore, pur se di importanza secondaria. Ma lo storico ebbe l’impressione che le parole di Grey «riflettevano una concessione all’autodenigrazione che rientrava nel tipico stile di chi in Inghilterra occupa posizioni di rilievo, piuttosto che una sincera ammissione di responsabilità». Schmitt rintracciò poi l’ex ministro delle Finanze russo Pëtr Bark, che faceva il banchiere a Londra e non ricordava quasi nulla (ma fortunatamente aveva tenuto qualche prezioso appunto su quei delicatissimi giorni).
C’erano infine problemi di evidente manipolazione postuma. Quando nell’autunno del 1937 lo studioso Luciano Magrini si recò a Belgrado, per intervistare i sopravvissuti tra quanti avevano partecipato al complotto che aveva portato Gavrilo Princip a premere il grilletto, «dovette constatare che alcuni testimoni riferivano di questioni delle quali non potevano avere conoscenza, altri tacevano o alteravano quello che sapevano e altri ancora aggiungevano fronzoli ai loro racconti o si preoccupavano di cercare giustificazioni a proprio vantaggio». Peggio. Molti contatti importanti tra i principali protagonisti erano a voce e non hanno lasciato traccia, sicché possono essere ricostruiti soltanto ricorrendo a fonti indirette o a testimonianze successive. Le organizzazioni serbe collegate con l’attentato di Sarajevo avevano un carattere rigorosamente segreto e non lasciavano quasi nessuna documentazione scritta.
Gli assassini di Sarajevo, scrive Clark, «fecero ogni sforzo possibile per occultare le tracce di un loro collegamento con Belgrado… Molti dei sopravvissuti tra i partecipanti si rifiutarono di parlare del loro coinvolgimento, altri esagerarono o ridimensionarono il ruolo che avevano svolto, oppure nascosero gli indizi con fumose speculazioni, generando un vero e proprio caos di testimonianze discordanti». Il complotto stesso non lasciò alcuna documentazione: «Praticamente tutti coloro che vi presero parte erano abituati a muoversi in un contesto ossessionato dalla segretezza; la collusione tra lo Stato serbo e le reti implicate nella congiura era volutamente occulta e informale, di fatto non c’erano tracce scritte». La storiografia sulla cospirazione «ha quindi dovuto districarsi fra un’incerta mescolanza di ricordi risalenti al dopoguerra, deposizioni e dichiarazioni giurate rilasciate sotto minaccia, affermazioni presumibilmente basate su fonti poi distrutte e brandelli di prove documentarie, nella maggior parte dei casi riferite solo indirettamente alla pianificazione e all’attuazione del complotto».
Risultato: la letteratura sulle cause della Prima guerra mondiale — vent’anni fa si stimavano 25 mila tra volumi e saggi su questo tema — oggi non aiuta a capire. O, comunque, aiuta meno di quanto ci si aspetterebbe. Oltretutto ha assunto proporzioni talmente vaste che nessun singolo storico («neppure un’immaginaria figura di studioso in grado di padroneggiare tutte le lingue richieste») può sperare di poterla leggere per intera nell’arco di una vita.
Nel nuovo approccio alla Prima guerra mondiale, quello successivo alla prolungata stagione della ricerca della colpa, viene da domandarsi, scrive Clark, se «discutendo della situazione internazionale o delle minacce esterne, i protagonisti dell’alta politica di quei tempi avessero davanti agli occhi qualcosa di reale o proiettassero le proprie personali paure e i propri desideri sui loro avversari, o facessero entrambe le cose insieme». E così tutti i più interessanti contributi recenti hanno sostenuto che la guerra, lungi dall’essere inevitabile, era di fatto «improbabile».
Perlomeno finché non esplose davvero, il conflitto non fu la conseguenza di un deterioramento in atto da lungo tempo, bensì di «traumi di breve termine che scossero il sistema internazionale». Il che spiega tanti fraintendimenti della prima ora. Come quello che capitò alla legazione russa di Belgrado, l’unica nella capitale serba a non esporre la bandiera a mezz’asta il giorno del funerale dell’arciduca ucciso da Princip. Anzi, si era diffusa la voce che la sera successiva all’attentato l’ambasciatore Nikolaj Hartwig avesse dato un ricevimento nella legazione russa, dalla quale si sarebbero sentite provenire «acclamazioni e risate». Hartwig chiese un incontro con l’ambasciatore austriaco Wladimir Giesl, che glielo concesse e si disse soddisfatto dei suoi chiarimenti. Solo che alla fine della cordiale chiacchierata, alle nove e venti di sera, il diplomatico russo ebbe un colpo apoplettico e morì. La baronessa Giesl fece immediatamente la sue condoglianze alla figlia di Hartwig, Ludmilla, che però le respinse, dicendosi indifferente a quelle «parole austriache». Nonostante fossero evidenti le cause del tutto naturali della morte del rappresentante russo, furono compiute indagini come se si trattasse di un assassinio. La stampa locale si impossessò della vicenda e descrisse i Giesl come dei «moderni Borgia», la Russia consentì a che, come richiesto dalla famiglia, Hartwig fosse seppellito in Serbia, e a lui furono riservati funerali di Stato di una «pomposità senza precedenti».
L’Europa si avviava in quei giorni a passi rapidi verso la notte. «La luce si è spenta», scrisse in una lettera di fine luglio il primo ministro britannico Herbert Asquith. I giornali inglesi (ad eccezione del «Times», che perorò la causa di un intervento britannico nell’imminente conflitto) furono indifferenti alla crisi che si era prodotta dopo l’uccisione di Francesco Ferdinando e della moglie Sofia. «Tanto poco Belgrado si preoccupa di Manchester, altrettanto poco Manchester si preoccupa di Belgrado», sentenziò il «Guardian». Il cui direttore, Alfred George Gardiner, vergò il 1° agosto un editoriale dal titolo «Perché non dobbiamo combattere». Stesso atteggiamento da parte dello «Yorkshire Post», che non vedeva «ragione per cui la Gran Bretagna dovesse occuparsi del conflitto». E così anche il «Cambridge Daily News», che definì «trascurabile» l’interesse inglese nell’intera vicenda. Di «dovere dell’Inghilterra» parlò l’«Oxford Chronicle», ma questo imperativo era quello di «mantenere localizzata la disputa e di badare bene a tenersene fuori».
Asquith, come si evince dalla lettera di cui si è detto, era preoccupato soprattutto perché un tentativo di trovare un accordo sull’Ulster era fallito a causa della complessa geografia confessionale delle contee di Tyrone e Fermanagh. Poi accennava del tutto marginalmente alla crisi che si profilava in Europa, specificando: «Fortunatamente non sembra vi sia ragione per cui dovremo essere qualcosa di più che spettatori». E la «luce spenta»? L’offuscarsi del bagliore era riconducibile, per Asquith, al fatto che una sua giovane amica, Venetia Stanley, un’elegante e intelligente donna di mondo, quel giorno aveva lasciato Londra per trasferirsi nella casa di campagna ad Anglesey.