Alessandra Dal Monte, Corriere della Sera 14/10/2013, 14 ottobre 2013
QUEI CINQUECENTO EURO IN PIÙ GUADAGNATI DA CHI SI LAUREA E VA VIA
Mille e trecento euro netti al mese a quattro anni dalla laurea. È lo stipendio medio dei «figli della crisi», i giovani italiani che hanno finito gli studi universitari (triennali) nel 2007 e che si sono immessi nel mondo del lavoro in concomitanza con l’inizio della recessione economica mondiale. La maggior parte di questi ragazzi ha trovato un posto, una piccola parte no — e si va ad aggiungere a quel milione di giovani tra i 16 e i 24 anni che oggi in Italia non sta né studiando né lavorando —, ma in generale i laureati italiani hanno pagato lo scotto della crisi più dei coetanei di altri Paesi.
Lo dimostra l’elaborazione degli ultimi dati Istat sull’inserimento professionale dei laureati (relativi al 2011) curata da Carlo Barone, docente di Sociologia all’Università di Trento. Il risultato è che, a quattro anni dal titolo, chi è andato all’estero prende quasi 1.800 euro netti al mese (1.783, per l’esattezza), mentre chi è rimasto in Italia ne guadagna 1.300. Certo, con dei distinguo di area geografica e disciplina: nel Nord Italia lo stipendio medio è di 1.374 euro al mese, al Centro di 1.306, nel Sud e nelle isole scende a 1.218. Le lauree sanitarie sono quelle più redditizie al Nord e al Centro, mentre al Sud rende di più l’ingegneria informatica .
Gli studi meno remunerativi al Nord sono quelli di Educazione, formazione e psicologia, mentre al Centro e al Sud si guadagna meno con le lauree in Lettere, Arte, Lingue, Storia e Filosofia. «Nel complesso la forbice di guadagno tra i diversi corsi di laurea triennali è abbastanza compressa: si aggira tra i 300 euro netti al mese. Una maggiore differenza si rileva con i titoli specialistici — spiega il professore —. E non è nemmeno vero che le lauree umanistiche e quelle scientifiche producono divari di stipendio così grandi: a eccezione di Ingegneria e Medicina, al Nord un veterinario prende 27 euro in più al mese di un laureato in Lettere».
Ma al di là delle variazioni tra discipline, restano due fatti: c’è ancora un enorme divario di genere, le ragazze prendono in tutti i settori meno dei ragazzi. «Un retaggio inspiegabile e che deve essere subito superato», dicono in coro recruiter e analisti. E gli stipendi italiani sono bassi. «Colpa dei pochi posti qualificati che offre il nostro mercato del lavoro: sono rimasti uguali a 30 anni fa, ma i laureati nel frattempo sono aumentati. E anche se c’è stato un calo degli iscritti negli atenei negli ultimi tre-quattro anni, comunque i ragazzi con un titolo universitario sono più dei posti a disposizione per loro. Soprattutto in certi ambiti, come quello umanistico o sociale. A causa di questo squilibrio i laureati si trovano a fare gli impiegati o gli educatori nelle cooperative, lavori che quindici anni fa si ottenevano con il diploma».
Il problema, insomma, va ben oltre la crisi. «È strutturale: bisogna creare più posti di lavoro per laureati, investendo in ricerca e nel settore della cultura — continua Barone —. Non è possibile che nel Paese più ricco di arte al mondo un laureato in Conservazione dei beni culturali non trovi lavoro o venga pagato una miseria». «Poi non ci si stupisca se i nostri laureati emigrano», rincara la dose Alessandro Rosina, docente di Demografia e statistica sociale all’Università Cattolica di Milano, che oggi parteciperà a «Quale Italia?», il convegno organizzato dalle associazioni People in Touch e Cultura&Solidarietà per presentare questi e altri dati sul mercato del lavoro in Italia. «Gli stipendi così bassi a diversi anni dalla laurea non si spiegano solo con la crisi. Il problema è la mentalità sbagliata dell’Italia, che non valorizza il capitale umano: invece di investire sui giovani, sulle loro idee e sulle loro capacità, il nostro sistema produttivo preferisce mantenere basso il costo del lavoro, pagando poco le persone e trattandole come manodopera usa e getta».
La conseguenza, secondo il professore, non è solo la fuga dei cervelli: «Così il Paese non riprenderà a crescere. È un cane che si morde la coda: l’Italia non valorizza i giovani perché non cresce, ma se non cresce è anche perché non punta sulle nuove leve. Bisogna interrompere il circolo vizioso che trasforma i giovani da risorse a un costo sociale». Già, perché un ragazzo che guadagna poco o che non lavora pesa sulla famiglia e sulla collettività. Che fare? «È necessario investire in politiche attive per il lavoro, cioè servizi di formazione continua e di ricollocazione, per mantenere sempre attivi i giovani sul mercato».
A insistere sul valore del capitale umano sono anche gli esperti di recruiting come Nicolò Boggian, cacciatore di teste: «La differenza la fanno le persone, bisogna investire su di loro. I Paesi che vanno meglio puntano su giovani e donne, l’Italia deve allinearsi».