Paola Scaccabarozzi, D Repubblica 12/10/2013, 12 ottobre 2013
IL MIO CORPO ESAGERATO
Le sedie sono sempre troppo strette, i vestiti introvabili (a meno di rivolgersi a rare e costose sartorie), gli ingressi angusti e gli sguardi altrui mortificanti. Colpa della ciccia che ti strappa il sorriso, e anche la salute. Trecento milioni nel mondo, dodici milioni in Europa e cinque milioni nel nostro Paese. Sono i dati dell’obesità forniti dall’Organizzazione mondiale della sanità. «Quelli di una malattia», spiega il professor Luigi Angrisani, presidente della Ifso (Federazione mondiale per la chirurgia dell’obesità), direttore dell’Unità operativa complessa di chirurgia laparoscopica e generale dell’Ospedale San Giovanni Bosco di Napoli, «che costituisce la seconda ragione di morte dopo il fumo, e la cui causa è di origine organica (cioè determinata da altre malattie) solo nel 5% dei casi». Un’epidemia che miete vittime nei paesi occidentali e ipernutriti, ma non solo. «Anche in India, in Brasile e in Cina», prosegue Angrisani, «il problema è molto diffuso. Lì colpisce le classi più abbienti. In Italia e negli Usa invece, è vero esattamente il contrario. Sono i più poveri a consumare junk food, il cibo spazzatura che costa poco e fa diventare over-size». Il risultato è che più che di obesità si dovrebbe parlare di “globesità”, con tutti i suoi annessi e connessi.
«Perche i chili di troppo, soprattutto per le taglie extra ed extra large», spiega il dottor Alessandro Giovanelli, chirurgo bariatrico e responsabile Inco (Istituto nazionale chirurgia obesità), Istituto Clinico Sant’Anbrogio Milano, «predispongono a un elevato rischio di malattie che vanno dal diabete alle patologie cardiovascolari, da problemi alle articolazioni a gravi ripercussioni sul sistema respiratorio. Fino a una maggior incidenza di tumori e disturbi psicologici anche invalidanti». Dunque, che fare? Diete, esercizio fisico, rieducazione alimentare, psicoterapia e farmaci. Ma a volte tutti i tentativi talliscono miseramente. E le ragioni sono tante, comprensibili e, soprattutto, personalissime.
«E evidente però che su un corpo di 170 chili perderne 20 è spesso una fatica immane che, magari, non viene neppure riconosciuta e percepita da se stessi e dal resto nel mondo», dice Emanuel Mian, psicologo presso l’istituto nazionale per la chirurgia dell’obesità. Quindi è facile che, demotivati, si torni ad abbuffarsi. «Poi», prosegue Giovannelli, «c’è anche una questione fisiologica. La colpa e delle adipochine, molecole sintetizzate e secrete dal tessuto adiposo, che inducono gli obesi a introdurre nel proprio corpo un numero sempre maggiore di calorie». Il concetto è che, in qualche modo, grasso richiama grasso. Anche a livello psicologico, il meccanismo è facilmente intuibile: ingrasso, mi deprimo, quindi mangio di nuovo e metto su altro peso. «Proverò senso di colpa e lo so in anticipo», spiega Mian, «ma non importa. È peggio sprofondare nel vuoto che mi attanaglia prima dell’abbuffata, che conoscere già la colpa che sperimenterò a posteriori».
Cosi, percorse tutte le strade. fortunatamente c’è chi non si arrende e bussa alla porta del chirurgo bariatrico (dal greco baros, peso, più iatros, medico), che, nei centri migliori e più seri, lavora in equipe, cioè a stretto contatto con nutrizionisti, psicologi, dietisti, e medici di varie specialità. Ma qual è l’identikit del paziente tipo, cioè di colui che può essere sottoposto all’intervento? «Gli obesi che hanno un indice di massa corporea superiore a 35 o 30 e associato ad altre malattie (come il diabete) e hanno alle spalle numerosi tentativi di diete fallite», spiega Giovanelli. «Ma anche», sottolinea Angrisani, «pazienti con obesità iniziale e moderata. I rischi dell’intervento sono minori e maggiori le percentuali di successo». «L’importante, però, concordano i due esperti, è che la chirurgia dell’obesità venga fortmenete personalizzata in base alle caratteristiche individuali, affinchè chirurgo e paziente scelgano insieme l’intervento più idoneo. E ce ne sono di vario tipo. «Quelli», spiega Giovanelli, «che riducono la capacità dello stomaco, inducendo una sazietà precoce (palloncino intragastrico, che è in realtà più che un intervento una tecnica endoscopica; bendaggio gastrico regolabile, gastroplastica verticale); operazioni che diminuiscono il volume dello stomaco e, al tempo stesso, accelerano il metabolismo (gastrectomia verticale, bypass gastrico) e interventi che agiscono sui processi digestivi riducendo l’assorbimento dei cibi (diversione intestinale, bypass biliointestinale)».
Ma quali allora gli interventi più eseguiti? «I dati italiani», spiega Giovanelli, «mettono il bendaggio gastrico regolabile al primo posto. Si tratta di un intervento che riduce il volume dello stomaco, trasformandolo in una sorta di clessidra. Si esegue inserendo un anello di silicone nella parte superiore dello stomaco che dà luogo a una tasca di dimensioni ridotte. Il funzionamento e intuitivo: basta ingerire una piccola quantità di cibo per riempirla. L’intervento si esegue in 20 minuti, non è invasivo (in laparoscopia), e reversibile (la protesi può essere rimossa) ed e regolabile dall’esterno, il che significa che il chirurgo può sringere o allentare l’anello periodicamente». «In rapida diffusione in Italia e nel mondo», prosegue Angrisani, «anche la gastrectomia verticale (Sleeve Gastrectomy). Lo stomaco viene sezionato verticalmente, asportato per circa l’80% e trasformato in una sorta di “canalino”. Questo intervento di “lifting gastrico” agisce anche sul metabolismo, perché diminuiscono nel sangue i livelli di grelina, un ormone (prodotto da alcune cellule giacenti sul fondo dello stomaco) che regola il senso di fame».
E i rischi? I più frequenti, affermano gli esperti, sono quelli connessi all’anestesia totale, sanguinamenti ed emorragie. «Comunque», precisa Giovanelli, «con l’utilizzo della tecnica laparoscopica i rischi si sono notevolmente ridotti. E se un obeso su 100 muore per le complicazioni della chirurgia, non dobbiamo dimenticare che il 4% degli obesi non operati muore per le malattie connesse all’obesità». «Numerosi studi», prosegue Angrisani, «sottolineano, infatti, gli eccezionali benefici della chirurgia nel migliorare o guarire condizioni patologiche associate all’obesità specie nel diabete, prevenendo e curando le sue terribili complicanze come la cecità, l’insufficienza renale e le ischemie degli arti inferiori».
Ma gli interventi sono risolutivi e definitivi? «Gli interventi», afferma Angrisani, «sono risolutivi nel 60-80% dei casi, che è una percentuale enorme, considerando che non vi sono altre possibilità di cura con metodiche conservative. Anche perche l’obesità è una malattia cronica e degenerativa e, come tale, tende a ripresentarsi dopo 3-5 o 10 anni, ovviamente in relazione alla tipologia dell’intervento e alla “bravura” del paziente nell’attenersi agli schemi e ai consigli nutrizionali post-operatori. Anche l’esercizio fisico per almeno 45 minuti al giorno è fondamentale per il mantenimento del peso perso».
Dunque, una volta usciti dalla sala operatoria dopo una breve degenza (in genere di 48-72 ore) la sfida continua. I pazienti vengono costantemente seguiti, monitorati e accompagnati in un percorso che prevede, spesso, anche la chirurgia plastica ricostruttiva. La ragione è semplice, basta immaginare un corpo che cambia completamente fisionomia, che si svuota e deve fare i conti con tessuti molli e cadenti. «Gli inestetismi cutanei , spiega Angrisani, «possono e devono essere corretti dopo almeno 6 mesi di stabilità del peso perso. Addome, braccia, seno e cosce le zone del corpo in cui normalmente si interviene di più». Anche dal punto di vista psicologico, l’impatto del post intervento non e certo a costo zero. «Una drastica perdita di peso», spiega il professor Antonino Minervino, direttore del dipartimento salute mentale dell’Azienda ospedaliera di Cremona e docente di tecniche conversazionali all’Università Cattolica di Milano, «implica un radicale cambiamento della propria immagine. A volte ciò porta a esaltazione ed euforia, con il rischio di abbassare la guardia e di cadere di nuovo nella trappola delle abbuffate, oppure, al contrario, può essere causa di depressione».
Paradossale? Solo in apparenza. «Quel corpo nuovo con meno chili addosso, esteticamente più piacevole, insieme alla ciccia ha perduto una parte di sé, quello spazio così ampio che assicurava il suo esserci nel mondo. Allora si fa strada la nostalgia che spinge l’ex obeso nel vortice dal quale è appena uscito. Ma se il paziente è stato ben motivato dai medici e dello psicologo e viene seguito anche in famiglia, le probabilità di successo aumentano esponenzialmente».