Daniela Minerva, D Repubblica 12/10/2013, 12 ottobre 2013
MARY CHE DICHIARO’ GUERRA AL CANCRO
Capelli corvini, occhi neri e penetranti, e quell’allure supertrendy newyorkese che, secondo le diverse declinazioni della moda, ha dipinto le cosiddette socialite, zarine dell’alta società, dame potentissime e ricchissime, determinate e sprezzanti. La chiamavano “Angel of mercy”, per il suo costante afflato umanitario, ma in realtà sembrava più una del genere “il diavolo veste Prada” che non madre Teresa di Calcutta.
Mary Lasker, nataWoodard, era americana fino al midollo: fede repubblicana, fiducia assoluta nel potere del denaro e nella potenza dell’America, portatrice di un pensiero semplice e concreto, molta muscolarità e pochi dubbi. Diventò ricca nel dopoguerra inventando Hollywood Patterns, un brand da due soldi che copiava gli abiti design vendendoli nei grandi magazzini a un target del tutto nuovo: la crescente forza lavoro femminile impiegata negli uffici. Sposò Albert Lasker, altro protagonista dei salotti, considerato il primo pubblicitario a usare gli stilemi del moderno linguaggio dell’advertising: la riduzione di un messaggio ai suoi elementi più semplici e quindi immediatamente apprezzabili da qualunque pubblico. Un mix che nelle mani di Mary sarebbe diventato un nuovo modo di pensare la medicina. Le molte ricostruzioni agiografiche della sua vita raccontano di come la giovane Mary avesse incontrato la malattia sin da piccola, di come non avesse voluto accettare che l’unico rimedio contro la cardiopatia che affliggeva entrambi i genitori fosse lo stare tranquilli e di come si fosse infuriata perché nessuno osava pronunciare la malattia che uccise la sua cuoca.
Insomma, Mary Lasker diede di sé l’immagine di un’eroina americana sempre in lotta contro il male, che contava di vincere perché in America tutto è possibile. Si fece descrivere nelle biografie autorizzate come una combattente in trincea contro la sofferenza, ma i suoi critici, invece, la dipingevano come un’intrallazzona sempre in pista tra industriali, banchieri e senatori, incapace di comprendere il senso profondo della scienza, e convinta che tanti soldi e un’organizzazione verticistica servissero molto più del pensiero e del libero scambio di idee. Di certo, però, fu lei a inserire con prepotenza il cancro nel discorso pubblico americano. Lo fece a partire dall’aprile del 1943, quando «una mattina irruppe nel mondo della ricerca sul cancro con la forza di un tifone inaspettato».
Il premio Pulitzer Siddharta Mukherjee, nel bellissimo libro The Emperor of all Maladies, racconta che Mrs. Lasker decise quel giorno di saperne di più della American Society for the Control of Cancer, piccola organizzazione di New York impegnata nell’informazione sul cancro, ma che non ne rimase per nulla soddisfatta. Cosi la scalò, fino a toglierla completamente dalle mani degli scienziati che l’avevano creata e a trasformarla nell’ACS. Nel giro di pochi anni la società diventò un potente strumento di raccolta fondi, capace di finanziare ricerche e propagare informazione in ogni modo possibile. Il primo risultato lo sottolineò la stessa Lasker quando disse: «Cancer was a ward you simply could not say out loud». Il cancro, prima che i Lasker decidessero altrimenti, era una parola che semplicemente non poteva essere pronunciata ad alta voce. Toccò a Emerson Foote, uno dei direttori dell’agenzia di pubblicità di Albert Lasker, diventato dirigente dell’ACS, farla diventare invece una parola sulla bocca di tutti. Foote raggiunse lo scopo utilizzando le regole del suo mestiere e coinvolgendo industriali, giornalisti, cineasti e gente di mondo (che poi i giornali battezzarono i “Laskerties”), mentre biologi e cancerologi venivano spinti nell’angolo: ai Lasker, infatti, sembrava ovvio che a dirigere il discorso pubblico, la raccolta di fondi e la loro destinazione non fosse la comunità scientifica ma i membri della società civile, che poi era l’alta società. Nella visione del mondo di Mary gli scienziati erano utili per raggiungere lo scopo di curare il cancro, ma il business non poteva in alcun modo essere lasciato nelle loro mani.
Peraltro, in quegli stessi anni, era tutta la ricerca biomedica americana a essere scossa dallo stile Lasker. E un fatto che fino alla seconda guerra mondiale la medicina statunitense fosse fiacca (niente a che vedere con la brillantezza di quella tedesca o francese) e che lo stato di salute della popolazione fosse carente, tanto che un terzo dei giovani uomini coscritti per la guerra fu riformato per ragioni di salute. La ricerca era appannaggio di industrie ancora modeste e delle università dove i denari del governo non erano ben accetti perché dominava l’idea che avrebbero compromesso alla base la libertà della scienza. Ma è anche un fatto che, in poco più di vent’anni, gli Stati Uniti giunsero a dominare la scena della ricerca biomedica, soprattutto grazie al massiccio finanziamento gestito dall’allora National Insolute of Health e a un’inedita pressione dell’opinione pubblica che cominciò a chiedere salute e obbligò la politica a occuparsene. Su questo aspetto Mary Lasker giocò certamente un ruolo, convinta che «senza soldi non si fa niente».
Come riferisce nel suo Life without Disease. The Pursuit of Medical Utopia William Schwartz, nefrologo americano esperto di economia sanitaria, recentemente scomparso, dopo aver trasformato l’ACS in un potente strumento di raccolta fondi, Mary Lasker capì che solo dal governo sarebbero potute arrivare somme di denaro così consistenti da permettere di affrontare sfide mediche complesse come il cancro, le patologie cardiache e le malattie mentali. Pertanto, spostò la sua forza di volontà, la sua incomparabile rete sociale e il suo ben fornito portafoglio sulla scena politica, e qui stabili un nuovo standard per un’efficace e concertata azione di lobby sul Congresso. Contribuì massicciamente alle campagne elettorali, diventò amica di presidenti, ammaliò la stampa, e costruì un network di attivisti del tutto omologhi a lei, memorabilmente descritto da Elizabeth Drew in un articolo apparso sull’Atlantic Monthly col titolo The Health Syndicate: Washington’s Noble Conspirators. Come conseguenza diretta di tutti questi sforzi, i National Institutes of Health cominciarono a crescere passando dall’essere una piccola agenzia con un budget di 26 milioni di dollari nel 1948 a diventare il Golia che è oggi, con un budget, nel 1997, stimato in più di 12 miliardi.
Gli osservatori sottolineano come la Lasker abbia inventato una lobby sanitaria onnipotente a Washington. Ma è sul cancro che si concentrarono i suoi sforzi; innanzitutto fece dell’American Cancer Society il polo d’attrazione di finanziamenti e interessi politici, un gruppo di potere che traeva la sua forza dai malati a cui dava voce, dall’opinione pubblica man mano convinta che il cancro non poteva essere il nemico innominabile in un grande paese come gli Stati Uniti, dai media che Lasker coinvolse nel gioco degli appoggi incrociati. In quel manipolo di oncologi, a partire da Sidney Farber, cominciarono a vedere la possibilità di trattare i tumori con una terapia medica, e volevano i soldi per farlo. Mary intuì, però, che per contare davvero a Washington aveva solo una chance: far diventare il cancro una questione politica. Questo obiettivo non si poteva raggiungere senza dar voce ai malati e ai loro familiari, senza riempire i giornali e le radio di dati e testimonianze. Insomma, nessuno la sarebbe stata a sentire se il cancro fosse rimasto una parola impronunciabile. La realtà, nei primi anni 50, era ancora quella di Fanny Rosenow, sopravvissuta al cancro del seno e attivista, che chiamò il New York Times perché intenzionata a pubblicare un’inserzione a pagamento per pubblicizzare un gruppo di supporto alle donne col tumore della mammella. Il Times però rispose che non poteva pubblicare la parola “seno” o la parola “cancro” nelle sue pagine.
Ci sarebbero voluti parecchi anni e parecchie campagne dell’American Cancer Society perché lo stesso quotidiano newyorkese trovasse del tutto appropriato pubblicare un annuncio che oggi definiremmo shock: «Mr. Nixon: lei può curare il cancro. Se il cielo ascolta le nostre preghiere, questa è quella più udita: “Mio Signore, ti prego. Non il cancro”. Eppure, più di 318mila americani sono morti di cancro lo scorso anno. Quest’anno, signor presidente, lei ha il potere di cominciare a far finire questa maledizione. Mentre voi agonizzate sul budget, noi vi imploriamo di ricordare l’agonia di quei 318mila americani morti di cancro l’anno scorso, delle loro famiglie. L’America può farlo. I nostri migliori scienziati del cancro non dubitano che si possa trovare la risposta finale. Il dottor Sidney Farber, ex presidente dell’American Cancer Society, crede: “Siamo così vicino ad avere una cura per il cancro. Ci manca solamente la volontà, il denaro necessario e la pianificazione strategica che sono stati necessari a portare l’uomo sulla Luna”. Perché non proviamo a conquistare il cancro per il 200° compleanno dell’America?... La nostra nazione ha il denaro da un lato e le capacità dall’altra: dobbiamo, guidati da lei, metterci al lavoro e farlo».
A firmare l’annuncio, pubblicato il 17 dicembre del 1969 dal New York Times e qualche giorno prima dal Washington Post, fu il Citizen Committee for the Conquest of Cancer, una delle associazioni dei Lasker, che con ciò plasmò un profondo cambiamento di orientamento nell’opinione pubblica: il cancro non era più il male assoluto che non si poteva neanche pronunciare, ma un nemico concreto che, nella visione semplificata dell’advertising, si doveva e poteva combattere. Era solo questione di soldi e organizzazione. La metafora scelta per veicolare il messaggio era quella più ovvia e popolare: la guerra. Bastava dichiararla e l’America, come sempre, l’avrebbe vinta, addirittura in tempo per il bicentenario. Un’americanata? Forse. Una crudele presa in giro per i malati di tutto il mondo? Anche. Una semplificazione perniciosa? Certamente. Ma, soprattutto, una geniale operazione mediatica, capace di spazzare via in un attimo paure e timidezze e di mettere un’intera società di fronte alla responsabilità delle proprie scelte.