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 2013  ottobre 15 Martedì calendario

IL FUOCO DELLE PRIMAVERE HA BRUCIATO 800 MILIARDI

Per i Paesi investiti a partire dal dicembre del 2010 dalla cosiddetta Primavera araba, la ricaduta, in termini economico-finanziari, delle rivolte popolari è fallimentare. A fare i conti in tasca a sette nazioni ribelli (o paravento delle altrui ribellioni), ovvero Egitto, Tunisia, Libia, Siria, Giordania, Libano e Bahrein, è il colosso bancario Hsbc, che ha commissionato al proprio centro di ricerca uno studio mirato sulle prospettive di ripresa di Nord Africa e Medio Oriente.
Presente e futuro a breve termine sono funerei: per la fine del 2014, hanno decretato gli esperti interpellati, il prodotto interno lordo dei sette Paesi aggregati sarà inferiore del 35 per cento a quello stimabile senza rivoluzioni. Per un danno complessivo di almeno 800 miliardi di dollari. Questo nonostante lo sforzo dei governi di transizione per rimettere in movimento le singole economie e attirare gli investimenti stranieri. La pubblicazione del rapporto Hsbc, alla fine della scorsa settimana, ha scatenato una ridda di commenti, fra l’ironico e l’amaro, più in ambiente americano-anglosassone che mediorientale, probabilmente in relazione anche al drammatico frangente attraversato dalle casse statunitensi, sull’orlo del baratro. E pensare che, si legge in questi giorni in numerosi editoriali americani, tutto cominciò, il 17 dicembre 2010 in Tunisia, per il malessere socio­economico di centinaia di migliaia di giovani. E che tre anni dopo, quegli stessi giovani hanno ancora meno prospettive di allora e i loro Stati sono in lista per ricevere aiuti internazionali. Allora, complessivamente, il tasso di crescita della regione si attestava intorno al 5 per cento, nonostante l’impatto drammatico della crisi mondiale sul Sud del Mediterraneo (l’Egitto faceva segnare il +8 per cento solo tre anni prima, nel 2007, ndr). Ora, invece, il 4 per cento sarebbe già un ottimo risultato: per l’Egitto, ad esempio, martoriato dal braccio di ferro fra islamisti e liberali, fiancheggiati dai militari, si stima, peccando di ottimismo, un +2,2 per cento a fine 2013. Di segno opposto l’effetto delle rivolte sulle monarchie del Golfo, riuscite nell’intento di lasciare fuori dalla porta le idee rivoluzionarie e gli slanci islamisti – di cui Qatar e Arabia Saudita sono i maggiori sostenitori, ma non a casa propria –: già a fine 2011, il soffio rivitalizzante della primavera nordafricana aveva regalato a Riad un +25 per cento di entrate pubbliche, il +31 per cento agli Emirati Arabi Uniti. Già allora, invece, Tripoli perdeva l’84 per cento del proprio Pil annuale, mentre Sanaa il 77 per cento per lo stop subito dalle rispettive industrie di estrazione di idrocarburi.
Senza i generosi aiuti dei Paesi della Cooperazione del Golfo (Gcc), nessuno Stato “post-rivoluzionario” potrebbe neanche parlare di ripresa: il governo transitorio di Hazem al-Beblawy, in Egitto, ha appena annunciato investimenti nelle infrastrutture stradali per 3 miliardi di dollari, l’aumento degli stipendi minimi dei dipendenti pubblici e tagli alle rette scolastiche. Disposizioni inconcepibili, senza un primo aiuto di 12 miliardi di dollari dai Gcc, visto che il Paese, dopo due rivoluzioni successive, sta ancora negoziando con il Fondo monetario internazionale un prestito da 4,8 miliardi di dollari. La pubblicazione della ricerca Hsbc ha dato fiato ai detrattori della Primavera araba, pronti a derubricare l’intero fenomeno regionale come un’illusione riformatrice subito dirottata dalle ambizioni islamiste. Qualsiasi tentativo di bilancio appare per la verità destinato a naufragare di fronte a uno scenario in continua evoluzione: nessun falò primaverile si è mai spento, nessuna ambizione democratica è stata soddisfatta, nessun miglioramento socio­economico si è verificato. Ma la frustrazione, quella sì, è aumentata. Stando così le cose, non è necessario avere doti divinatorie per predire duratura instabilità in Nord Africa e Medio Oriente. Ben oltre i tempi degli istituti bancari, cadenzati sull’anno fiscale.