Vittorio Giacopini, Il Sole 24 Ore 13/10/2013, 13 ottobre 2013
CRONACHE DALLA CITTÀ ETERNA
Quando sbarca a Roma – primi anni Cinquanta, un’altra Italia – probabilmente non immagina che è per trattenersi a lungo, fino a morirci. Di sicuro conosce invece il monito di Goethe, o la minaccia. «Roma è tutto un mondo. ...fortunati quei viaggiatori che vedono e se ne vanno». Ingeborg Bachmann di fatto non se ne va, osserva e resta, e Quel che ho visto e udito a Roma è un piccolo tesoro – scomparso e ritrovato – sorprendente. Si tratta di una serie di cronache per Radio Brema e del testo (spiazzante e inclassificabile ma efficace) che dà il titolo a tutta la raccolta. Quella tra Ingeborg Bachmann e Roma è una lotta con l’angelo. Non avendo la "fortuna" di chi guarda e se ne va, accetta la sorte. Prima di farsi irretire da questa città-palude, prova a capire. Prima di arrendersi alle sue geometrie irreali prova a spiegarla.
Il grosso nucleo delle cronache è dominato dal caso Montesi. Gli ingredienti del melò ci sono tutti e la torbida vicenda fa da specchio alla città, anzi all’Italia. Per la Bachmann siamo davanti a «un palcoscenico che pullula di cosiddetti esistenzialisti, idoli dei salotti, cavalieri d’industria, fanatici della giustizia, ministri, giornalisti e attori». Niente di meglio per cogliere lo zeitgeist e intuire un Paese in piena trasformazione, decifrarlo. Ma presto alla Roma del Palazzo si sostituisce un fondale d’ombre. Oltre ad alcune pagine molto lucide sui mutamenti in atto – sulle automobili e le strade, sul lancio della 600, sulla nuova Metropolitana, sugli affitti – Quel che ho visto affronta l’azzardo di chiunque cerchi di scrivere di Roma. La città impone la sua regola – è un rompicapo – e tocca fare i conti con la compresenza dei tempi, degli spessori. «A Roma convivono atmosfere contrastanti: in politica, nell’archeologia, e non da ultimo nel clima». Nell’«unica capitale dell’occidente priva di industrie» (vero a metà) altre icone sfuggono alla realtà ordinaria per rivelare: «Le chiese sono come punti d’intersezione della storia».
Oltre il velo delle apparenze, oltre la cronaca, è di questo che parla Quel che ho visto, per allusioni: intersezioni della storia, tempi nascosti dentro l’involucro d’altri tempi, giochi di specchi. Nel saggio finale, la prosa scarnifica, si affila. È quasi una lastra di radiografia. «A Roma ho visto che tutto ha un nome e che bisogna conoscere i nomi... Ho visto a Campo de’ Fiori che Giordano Bruno continua a essere bruciato... A Roma ho visto che il Tevere non è bello...».
Senza concedere niente all’impressionismo, la Bachmann tenta un’operazione metafisica. La città come Porta Magica che si apre su un regno di Essenze, inaffidabili. A Roma, dice la Bachmann, «ho udito che gli occhi ci sono dati per vedere» ma lo sguardo muta subito in visione, allucinata. Anche senza conoscere le Notti romane di Alessandro Verri aveva capito perfettamente che a Roma ogni storia è una storia di fantasmi.