Malcom Pagani, Il Fatto Quotidiano 13/10/2013, 13 ottobre 2013
LIZZANI E IO NELLA ROMA DELLA VERA BELLEZZA
Acquisita una labile certezza: “Mi pare che in casa non ci sia nessuno”, Giuliano Montaldo rovescia sul tavolo il vizio di contrabbando. Sul pacchetto di sigarette, in uno stampatello incerto, c’è scritto ‘stronzo’: “E anche ‘basta’, perché dovrei fermarmi e a fumare sono veramente uno stronzo”. Sono tiri avidi. Nuvole passeggere. Domande retoriche: “Camminare nel traffico non avvelena allo stesso modo?”. Innocenti evasioni nel passato: “All’inizio, in moviola, capitava di accenderne anche 5 tutte assieme”.
A 83 anni, con gli stessi occhi liquidi che trasformavano gli orizzonti, Montaldo non ha dimenticato piroscafi e bandiere: “Da ragazzo mi mettevo in alto, a Genova, e dal mio punto di osservazione battezzavo la direzione delle navi. Se andavano a sinistra, immaginavo l’Asia. Se le vedevo sparire a destra, sognavo l’Africa”. Al cinema, molto prima di veder premiato a Cannes Sacco e Vanzetti, una delle 22 opere tra cronaca e storia (l’ultima, L’industriale con Piefrancesco Favino) che hanno disegnato un atipico percorso tra viaggi in Cina, opere liriche, trasvolate africane e lunghe pause, arrivò da giovane. Attore, a vent’anni, per Carlo Lizzani in Achtung! Banditi!: “Un film che non voleva produrre nessuno e che una cooperativa improvvisata di spettatori – portuali, impiegati e intellettuali – decise di finanziare con straordinaria incoscienza. Erano i tempi dell’ambigua direttiva di Stato sui panni sporchi da lavare in famiglia e a un certo punto, scoprimmo che il ministero dell’Interno non ci avrebbe concesso neanche il via libera per usare le armi finte. Ci venne incontro un gruppo di artigiani. Costruirono pistole e fucili di legno. Bellissimi fucili di legno con i quali andavamo in battaglia da neofiti, da bambini finalmente alle prese con i giocattoli, per la sincera disperazione di Carlo. Quando sparavamo per finta, non riuscivamo a reprimere il riflesso di fare con la bocca pam-pam-pam. Allora Lizzani, paziente, bloccava la scena e ci erudiva quieto: ‘Ragazzi, per l’amor di dio, attenti. Il suono lo aggiungiamo con il doppiaggio. Sparate senza parlare, sparate e basta’”. Quando ricorda l’amico di un’esistenza intera: “Il mio maestro, un gentiluomo”, il ritmo dialettico di Montaldo si piega all’accelerazione del dolore. Avrebbero dovuto telefonarsi nel giorno di festa, ma al sabato, non è seguita la domenica. Lo chiama “grande amore” e in una rimozione inevitabile, rifiuta di credere che nel palazzo a pochi isolati dal suo appartamento, nel quadrilatero con vista Vaticano nel quale si incontravano ogni settimana, Lizzani abbia davvero aperto la finestra per non voltarsi più: “Una sequenza finita molto male, uno strappo di cui non trovo la spiegazione, Carlo soffriva ma aveva ancora dei progetti”.
Il primo incontro?
‘Hai la faccia da adulto e puoi essere un comandante partigiano’ mi disse e io da un giorno all’altro, mi ritrovai sul set con Gina Lollobrigida, Lamberto Maggiorani di Ladri di biciclette, Carlo di Palma ai fuochi e Gianni Di Venanzo, il direttore della fotografia di Salvatore Giuliano, 8 ? e La Notte. Una cosa magica. Un mondo misterioso frequentato fin da adolescente, nei pomeriggi genovesi dello struscio in via XX settembre. Cinque sale da una parte della strada. Sette dall’altra. E poi la “Consolazione”, il cinema gestito dai preti in cui vidi un film russo, il primo della mia vita.
Con Lizzani lavorò a lungo.
Al secondo film, Cronache di poveri amanti, presi coraggio. Ero eccitato. Curioso. Gli rompevo le scatole. Stavo vicino al regista per cercare di capire. Mi chiedevo come facesse a girare un copione in cui non c’erano dettagli, indicazioni per l’inquadratura, campi lunghi o primi piani.
Lo capì?
Servì tempo. Per iniziare seguii il suo consiglio. Mi trasferii a Roma. Era una città ancora in divenire, con limiti e confini ben definiti. Per arrivare a Cinecittà o al Centro Sperimentale di Cinematografia attraversavi la campagna. Il tram passava tra pecore, pastori e prati verdi.
Come fu l’impatto?
Abituarsi fu un’impresa. Roma era già piena di buche e una mattina vedo un ragazzino in triciclo pedalare rapidissimo con serio rischio per la sua incolumità. Gli grido “stai attento” con accento vergognosamente cispadano e quello si gira di scatto: “Fatti li cazzi tua”. A Flaiano andò anche peggio. La conosce la storia?
Veramente no.
Ennio era appena arrivato in città. Abitava al pianterreno in via degli Appennini. Una stanza, un salone, un piccolissimo corridoio. Si sveglia e ancora in vestaglia, si mette a sistemare alcuni libri con la finestra aperta. Sulla strada passa una signora. Lei lo guarda. Lui ricambia. Si scrutano a lungo. La signora sparisce e poi ritorna. Lo osserva e senza lasciargli il tempo di rispondere, prorompe: “A frocio!”. Per una battuta c’era gente pronta a uccidere. Quella Roma era così e oggi, spiace dirlo, non c’è più.
Le piaceva?
Non c’era cattiveria né violenza. Mi ricordo che allo stadio, si simulavano alterchi senza spargimento di sangue. Si gridava: “Io a quello je darebbe ‘na pizza”, ma non c’erano mai pugni o schiaffoni. Comandavano l’ironia e il lazzo inoffensivo. Lo scherzo per lo scherzo: “Che fai cambi?”, “No sto sempre con tua moglie”. Una volta, nel traffico, vedo il camioncino di un rigattiere e un autobus sfiorarsi. I guidatori cominciano a discutere: “Lei deve lasciarmi la precedenza, conduco un mezzo pubblico” e l’altro, feroce: “Sì, mezzo pubblico e mezzo stronzo”. Mi sedetti su una panchina a poca distanza, incredulo. “Non è possibile”, mi ripetevo. Ecco, la Roma dei primi anni 60, era molto felliniana.
E la vita era davvero dolce?
Il film di Federico è stato per il cinema il più grande spot di sempre. Pensi solo a quanti ristoranti, da Timbuctù a Giakarta, hanno messo il titolo sull’insegna e le foto di Mastroianni e Anita Ekberg alle pareti. Roma poi somigliava a un Luna Park. Ti affacciavi in piazza del Popolo e incontravi Petri, De Santis e Pirro. Ti spostavi in via della Croce e ai tavoli di Otello trovavi Pontecorvo, Maselli, Monicelli, Age, Scola, Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi. Risalivi via Veneto e al Café De Paris, stanziavano Fellini e Flaiano. Gli unici eremiti erano Antonioni e Visconti.
Si dice che Luchino fosse altero.
Ne ero intimidito. Visconti metteva soggezione. Una volta Renato Salvatori, con il quale avevo lavorato, mi raccontò che a casa di Luchino, in un angolo, vide alcune valigie con le iniziali LV e si complimentò: “Ahò, Luchì, te sei fatto le borse personalizzate”. Erano capi di Louis Vuitton, credo che Visconti l’abbia preso in giro per la vita.
Perché erano anni così speciali?
Perché avevamo dentro una speranza che si è affievolita ed è precipitata in un altro incredibile ventennio. Mussolini aveva scritto che non esisteva arma più forte del cinema. Poi qualcuno deve aver teorizzato che la lancia più affilata fosse la televisione e chi è arrivato dopo, ha replicato lo schema parlando del computer. A me pare che non si discuta più e ci si incontri sempre meno. Si cazzeggia molto, ma non c’è più il piacere di riunirsi che abbracciò un periodo meraviglioso. Noi autori eravamo un pugno chiuso ed eravamo considerati tutti comunisti, anche chi come Fellini, De Sica e Rossellini, una tessera non l’avrebbe mai presa. Adesso ognuno naviga sulla sua zattera, anche se i problemi non sono troppo dissimili di ieri. Nel ’65 con Suso Cecchi D’Amico andammo in Commissione Cultura. All’uscita Suso, che era spiritosissima, finse un mancamento. Mi preoccupo e lei: ‘Scusami, mi ricordo che ero qui nel ’48 e dicevamo esattamente le stesse cose’.
Rimpianti?
Più che altro la foto di un distacco irreversibile tra le persone. Una volta quelli di Trastevere non incontravano quelli di Te-staccio perché non avevano la macchina. Oggi non si incontrano perché di auto ce ne sono troppe. È sempre quello il problema . L’impossibilità di comunicare. Oggi gli sceneggiatori – il dato mi fa disperare – scrivono al computer. Io ho nostalgia dell’Olivetti M-40, dei pomeriggi a casa di Age con la grande vetrata che dava sull’ingresso. Che amicizie. Che litigi.
Litigi?
Ma sì, capitava spesso che nella creazione, l’aria si incendiasse per una divergenza. Uno di noi scriveva una battuta spiritosa, l’altro non la capiva e si dava il la al saloon: ‘Ah, non ti fa ridere?, Ma io t’ammazzo!’. Pugni alzati, urla, una recita della rissa appena sfiorata dal verismo. Un giorno durante una di queste scenate, suonano alla porta. È un fattorino. Gli aprono. Si affaccia intimidito: ‘Ma che succede?’. ‘Stiamo lavorando, perché?’. Tituba. Poi butta il pacco dentro e se la svigna.
E i produttori a cui si rivolgeva?
Scappavano anche loro?
Mia moglie Vera Pescarolo, il mio termometro nei momenti di difficoltà, sa quanto ho faticato. All’epoca di Sacco e Vanzetti, un produttore mi chiese se si trattasse di una ditta di import-export. Per realizzare la storia dei due anarchici italiani di cui dalle nostre parti, si sapeva poco o nulla, mi aiutarono Giorgio Papi e Arrigo Colombo, i produttori. Durante le persecuzioni razziali, Arrigo era fuggito dall’Italia e aveva letto le lettere indirizzate al comitato di difesa da Vanzetti. Un inglese chiaro, pulito, semplice. Era innamorato della vicenda e si spese fino in fondo. Di una data America degli anni 20 però non era rimasto quasi nulla, così allo scenografo venne un’idea geniale: “Sai chi ha costruito Boston? Gli irlandesi. Annamo a vede’ a Dublino”. Aveva ragione.
Di Volonté che ricordi ha?
Era sempre il suo personaggio. 24 ore al giorno. In una notte poteva dimagrire o mutare radicalmente stato d’animo. Preparava il ruolo come il direttore d’orchestra segue lo spartito. Con Riccardo Cucciola, che interpretava Sacco, non diversamente dal vero Vanzetti che ne conosceva debolezze, depressione e tormenti legati a moglie e figli, fu fraterno. Covava attenzioni che ci lasciavano a bocca aperta: ‘Vuoi un caffettino?’, ‘Hai freddo?’. Gli suggeriva le battute, custodiva quaderni di appunti fitti di segni, punti, correzioni. Era tormentato e se gli capitava una parte negativa, il ruolo di un nevrotico, magari sadico, l’immedesimazione era assoluta ma sofferta. Prenda Indagine su un cittadino di un altro autore inquieto come Petri. Lì tra Volonté e il commissario sembra quasi che non ci sia il filtro della finzione. Una cosa impressionante.
(Una voce dal fondo, la moglie Vera: “Perché non dici la verità, perché non dici che dopo aver ripreso il Processo di Catanzaro, non ti volevano far girare più niente?”).
È vero, Montaldo?
No, nessuno mi ha mai detto: “Lei non lavora più”. Sono lento. (Sorride). Per fare un film impiego sempre tre anni. Il processo per le responsabilità neofasciste legate a Piazza Fontana però diede fastidio. Insieme a Freda e a Ventura, sfilava lo Stato. C’era una tensione inaudita. Una mosca si posò su Andreotti che non fece una piega e continuò a deporre.
Attori difficili, tanti?
Qualche diverbio, prima di diventare veramente amici, lo ebbi con Cassavetes ne Gli intoccabili. Voleva che mandassi via un attore, gli spiegai che non era lui a decidere e si placò. A farmi arrabbiare è riuscito solo Klaus Kinski. Me lo avevano sconsigliato: ‘È matto, non lo prendere, ultimamente ha scaraventato su un malcapitato il leggio solo perché al poveretto era scappato un colpo di tosse’. A Rio de Janeiro, al primo giorno di riprese di Ad ogni costo, lo vedo scherzare col macchinista: ‘Facciamo flic e floc’. Mi giro per un secondo e quando li riosservo, vedo che il macchinista, un orco di due metri, piange a dirotto. Klaus gli aveva spezzato un dito. Allora mi incazzo. Lo convoco in stanza e mentre mia moglie gli traduce il disappunto in tedesco, gliene dico quattro. Il macchinista venne da me per tutte e 8 le settimane del film: “Dotto’, me fa sape’ quando finiamo che al signor Kinski je voglio parlà de persona? Me lo dice, vero?’.
Per “Marco Polo” viaggiò per mesi in giro per il mondo. Per “L’Agnese va a morire” tratto dal libro di Renata Viganò, si trasferì in Romagna per mesi.
Era il primo episodio della guerra partigiana visto dagli occhi di una donna, una lavandaia che si reinventa staffetta. Avrei voluto Simone Signoret. Andai a trovarla in Normandia. Era molto malata. A un tratto si alzò, prese il libro di Renata, tutto sottolineato e mi abbracciò. Era un addio. Tornai a Roma molto triste e totalmente disilluso sulle sorti del film. Per me era finita lì. Lo sceneggiatore Franco Solinas mi propose invece la più improbabile delle idee. Ingrid Thulin. Una sventola svedese, già musa di Bergman, assolutamente distante dall’immaginario dell’Agnese. Vado a trovarla e la trovo, splendida, a bordo piscina, in costume da bagno. Le passo il copione e mi defilo imbarazzato. “Torna domani”, mi dice, ma penso sia per cortesia.
Il giorno dopo?
Mi ripresento. Viene ad aprire con un vestaglione, scapigliata, sciatta, irriconoscibile: “L’Agnese sono io”. Non dice altro. Partimmo così. Senza l’ospitalità della gente di Romagna, comunque, il film non si sarebbe mai fatto. È opera loro, non mia. La stessa Viganò non ci credeva più. L’andai a trovare e mi prese relativamente sul serio: “Ti faccio due tortellini, basta che non ne parliamo più”. Invece, grazie agli attori, che da Placido a Satta Flores vennero praticamente gratis e alle sottoscrizioni, arrivammo a destinazione. Mesi di ospitalità oggi impensabile. Quel paravento di Ninetto Da-voli appena vedeva dal pulmino un’abitazione chiedeva all’autista di rallentare e innestava la marcia: “Semo li partigiani del-l’Agnese, avreste qualcosa da magnà?” E giù salami, prosciutti, vecchiette in processione. Una cosa pazzesca.
Di Gillo Pontecorvo fu aiuto in “Kapò” e ne “La battaglia di Algeri”.
Abitammo anche insieme per un periodo, in case in cui per chiedere privacy e limitare la libertà di movimento degli altri inquilini, bastava la luce accesa in corridoio. Eravamo come fratelli. Gillo era un perfezionista che non parlava di sé e del suo talento neanche per sbaglio, ma aveva vezzi inattesi. Pescava da dio e con altrettanta grazia, giocava a tennis. Con suo grande dispetto, aveva sconfitto anche il futuro Re di Svezia. Un giorno a Prato, durante un sopralluogo, vediamo una figura elegante in lontananza. Marcello Del Bello, uno dei più grandi doppisti di sempre. Gillo mi fa: ‘Lo sai chi è quello? È Del Bello. Cazzo, ma lo sai che l’ho battuto tre volte’. Sorrido: ‘Gillo smettila, fai la persona seria’. Non finisco di parlare che mi ritrovo in un film dei fratelli Coen. Io e lui a scavalcare i binari per andare impolverati al cospetto di Del Bello: ‘Diglielo un po’ a questo, ti ho battuto o no?’. Grazie a Gillo, indirettamente, ebbi poi anche il mio momento di gloria genovese.
Ce lo racconta?
Tornavo dal set di Kapò e arrivai a Genova nel ’60, in piena protesta contro Tambroni. C’erano le barricate. Mi avvicino e mi riconoscono. ‘Compagni, abbiamo anche il commissario Lorenzo di Achtung! Banditi!’. Anche nel dramma, l’Italia non rinuncia mai al suo pezzo di commedia.
Lei è amico di Nanni Moretti che la chiamò a recitare ne “Il Caimano”. Tra lui e Monicelli, tra Nanni e un certo cinema italiano si notava una certa distonìa.
Nanni non aveva mai fatto neanche l’aiuto regista. Diventò subito attore e regista, con una cifra personale e una visione che dopo il Caimano e Habemus Papam, definire profetica è riduttivo. Lui e Sordi si incontrarono a un Festival rizzoliano e ci fu un po’ di frizione. Ma cosa si dissero glielo racconto un’altra volta. O magari se lo fa spiegare da Vera. Lo ammira molto. Nanni non è solo un grande regista. È un signore.
Dei Settanta di cui Moretti è un cultore che memorie ha?
Un decennio terribile. Un giorno ricevetti una telefonata: ‘Dobbiamo vederti, fare una chiacchierata, siamo amici’. Si presentano a casa in tre con una valigetta: ‘Tu guadagni, devi aiutare le Br’. Inizio a urlare: ‘In quella borsa c’è un registratore. Che siate provocatori, poliziotti o brigatisti, fuori da qui entro 20 secondi’. Poi urlo più forte: ‘Vera, chiama la Polizia’. Escono e minacciano: ‘Inizieremo la nostra rivoluzione da qui’. ‘Se la vostra rivoluzione inizia da casa mia non siete solo tre brigatisti, ma siete anche tre stronzi’. Mai più visti.