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 2013  ottobre 13 Domenica calendario

L’INTERVISTA ALBERTO ARBASINO


«Prima di qualun­que stronzata, “confesso che...” fa generalmente un’ottima impressione». Così si è chiusa la lectio magistralis di Al­berto Arbasino in occasione del conferimento de «La Quercia», sorta di premio alla carriera isti­tuito dal Bottari Lattes Grinzane e assegnato all’autore de L’inge­gnere in blu (Adelphi) proprio per la compilazione di questa sua memoria in onore di Carlo Emilio Gadda, scomparso qua­rant’anni orsono. «Il Germo­glio » è invece stato assegnato a Melania Mazzucco per Limbo (Einaudi). Terminata la lezione sono cominciati i ricordi veri, che Arbasino ha regalato alla pla­tea con ferrea generosità: un’ora esatta di aneddoti indimentica­bili e poi a tutti a cena.
Innumerevoli, i libri su Gad­da. Che cosa c’era di inedito, nel suo?
«L’aspetto vivace dello scritto­re. Gadda non era soltanto un problematico, uno che si compli­cava la vita da solo con le vicen­de editoriali ed economiche di anticipi ricevuti o da restituire. Valentino Bompiani si lamenta­va - con classe, ma si lamentava - ­che Gadda scrivesse per tutti tranne che per l’unico editore da cui aveva ricevuto un anticipo, Bompiani, appunto. Con chi era di una o due generazioni più gio­vane di lui o aveva la metà dei suoi anni, Gadda mostrava un la­to allegro che non veniva fuori dai suoi libri, né dalle testimo­nianze di quelli che avevano a che farci. Allegro e senza secon­di fini: non eravamo agenti di nessun editore e si stava insieme così, per un certo gusto del con­versare, che Gadda aveva som­mamente».
Per esempio la volta che...
«Che eravamo con Franca Va­leri. Lei alla fine di una colazione gli chiede se può scriverle un te­sto. E Gadda fa la presa in giro del teatro: “Lo vuole in prosa o in ver­si? In cinque atti, come si usava una volta, o in due tempi come è di moda adesso? Diciamo Una donna milanese: la nonna, la ma­dre e la figlia devono rinunciare all’amore perché sono avide di soldi. E adesso che le ho dato l’idea, se lo scriva lei”».
Quel «gusto del conversare» esiste ancora?
«Direi di no. Intanto oggi la conversazione culturale che av­veniva negli anni ’50 o ’60 non è più possibile. Si viene continua­mente interrotti. Magari da un programma televisivo che scat­ta a una certa ora, o dal telefono. Quel tipo di conversazione sciol­ta e continu­a era un tipo di even­to che oggi non accade più. E poi
c’erano i riferimenti culturali».
Finiti anche quelli?
«La totalità dei presenti non sa­prebbe coglierli. Si diceva Laura Adani, Andreina Pagnani, Sarah Ferrati, Evi Maltagliati, per dire le belle signore della scena. Oggi ci vorrebbero le note a pie’ di pa­gina per spiegare non soltanto chi era l’una o chi era l’altra ma le differenze di tono. Un tempo ba­stava citare. Lo stesso accadeva per gli stili dei diversi autori».
Gadda e Moravia.
«Gadda era Gadda. Moravia uno che scriveva in una lingua da aeroporto. Perché voleva es­sere tradotto il più velocemente possibile. Si immagini che cosa gliene poteva importare di Gad­da, il suo esatto opposto».
Gli intellettuali non esisto­no più?
«Non lo so. Intanto non so se si vedono con l’abitudine di quan­do ero giovane. Sia nei pranzi che tutte le sere a via Veneto, quando si stava con Patti, De Feo, D’Annunzio, Caprioli, No­ra Ricci. Dopo aver visto Piove­ne, Guttuso, Moravia a cena. A me sembra proprio che non ci sia più quella civiltà, quella cultu­ra da società letteraria. Mi ricor­do quando c’era il cosiddetto Te­atrino delle Mostre alla Galleria La Tartaruga di Plinio de Marti­is. Era sopra Rosati: ecco penso che soltanto Giosetta Fioroni vi­ve ancora. Perché Schifano, Franco Angeli, Tano Festa non ci sono più e non ce ne sono più».
Ma lei i contemporanei li leg­ge, li conosce?
«Non tanto. Se non sono più che “contemporanei”non si leg­gono volentieri. Li conosco po­co, non so come scrivono: se in solitudine o isolati nella folla».
E ai giovani scrittori, che si fregiano di questo titolo an­che a 50 anni, che direbbe?
«Di leggere, per la prima volta, a questo punto, i classici del ’900. È lì, è tutto lì».
Un consiglio che per essere seguito prevede umiltà.
«Perché, umiltà? Non si tratta di rileggerli, ma di leggerli la pri­ma volta. Non solo Gadda. Ma Palazzeschi, Comisso, Flaiano, Parise. Leggendo i Sillabari , che sono volutamente prosa sempli­cissima, si sente una specie di profumo di anni Trenta, di quan­do Parise era bambino, che li fa leggere ancora con gran gusto».
È questo il suo messaggio?
«Non ho nessun messaggio, solo un buon consiglio. Leggerli dovrebbe essere un passatem­po. Quindi è un suggerimento per un buon divertimento».