Giovanna Zincone, La Stampa 13/10/2013, 13 ottobre 2013
INTEGRARE ECONOMICAMENTE LE SPONDE DEL MEDITERRANEO
La tragedia non si ferma: ancora altri naufraghi sono periti nel Mare di Sicilia. Il dramma di Lampedusa risveglia una pietà profonda, troppo a lungo assopita. C’eravamo in qualche modo colpevolmente assuefatti alle notizie di perdite di immigrati, alla nozione di decine di migliaia di morti tra il Sahara e il mare.
Le centinaia di morti della scorsa settimana, a cui si aggiungono i caduti di venerdì, sono state un meritato shock per le nostre coscienze. È insostenibile l’immagine di mamme e bambini che si inabissano abbracciati, di un cordone ombelicale che lega ancora un piccolo al ventre materno. Il dolore per le vittime dovrebbe far tacere le strumentalizzazioni di parte che troppo spesso inquinano il dibattito pubblico italiano. Così non è.
Si è detto che l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, introdotto nel 2002 con la Bossi-Fini, incentiverebbe gli ingressi illegali. Per l’esattezza, questa fattispecie di reato non nasce con la Bossi-Fini ma è stata introdotta nel 2009 con il cosiddetto Pacchetto Sicurezza, voluto dall’allora ministro dell’Interno Maroni, e colpisce non solo i clandestini ma anche gli irregolari, cioè chi si ferma con un permesso scaduto. Si può sostenere che questa misura, ancora oggi in vigore, abbia dissuaso chi voleva entrare in Italia senza un permesso di soggiorno? Non mi pare proprio. In compenso ha contribuito a intasare a vuoto la nostra giustizia. Ci si lamenta spesso, magari a ragione, dell’eccessiva solerzia dei giudici italiani. Ma se si smettesse di etichettare come reati comportamenti che non producono evidenti danni sociali; se si riflettesse sul fatto che il nostro sistema giuridico, discutibilmente, prevede l’obbligatorietà dell’azione penale (se c’è un reato in linea di principio il giudice deve perseguirlo); se si legiferasse di conseguenza, si farebbe già un bel passo avanti.
Intanto potremmo cominciare a staccare l’etichetta «reato» dall’immigrazione clandestina. È un’etichetta non solo ingombrante, ma superflua. Toglierla infatti non renderebbe impossibile trattenere i clandestini in appositi centri, identificarli e (se ci si riesce) rimandarli nella patria di origine, posto che ovviamente non siano rifugiati. Questo prevedeva già non solo la Bossi-Fini, ma anche – seppure con forme e tempistiche diverse – la Turco-Napolitano. Tutti gli Stati pretendono di controllare le proprie frontiere e utilizzano misure di questo genere. Il che non implica che le persone che entrano di straforo, o si fermano con permesso scaduto, debbano essere equiparate per questa sola ragione a delinquenti. Tanto è vero che in Italia anche i governi di centro-destra hanno concesso a questa «temibile» platea cospicue regolarizzazioni di massa. Lo ha fatto la stessa Lega che oggi manifesta con veemenza nelle piazze. E lo ha fatto perché anche le famiglie e gli imprenditori che votavano Lega utilizzavano, e probabilmente utilizzano ancora, immigrati irregolari, ma, essendo assai meno feroci di quanto i loro leader vogliano farli sembrare, spesso e volentieri vorrebbero regolarizzare i propri dipendenti e premono per poterlo fare. Insomma, il reato di immigrazione clandestina è un impiccio che serve soprattutto a piantare una bandierina ideologica. Dietro questa barricata a difesa del reato traspare il calcolo cinico che, con limitato senso del pudore, ha onestamente espresso Grillo: la volontà di incassare voti.
Ma le bandierine ideologiche hanno molti fan anche dall’altra parte della barricata.
Mentre i fautori del reato affabulano che la sua abolizione costituirebbe motivo di attrazione per chi pianifica di partire, e quindi li indurrebbe a intraprendere viaggi fatali, dall’altra parte della barricata non si risparmiano accuse altrettanto pesanti: anche qui si tratterebbe di una responsabilità morale per le morti in mare. Il reato di immigrazione clandestina scoraggerebbe i pescatori dal prendere a bordo i naufraghi, in quanto rischierebbero di essere incriminati per favoreggiamento. Tesi patentemente falsa, che fortunatamente è stata smentita all’istante. Il procuratore di Agrigento si è sentito in dovere di precisare che semmai sotto processo ci va chi fa omissione di soccorso. E i pescatori di Lampedusa hanno comunicato: «C’è disinformazione, nessuno di noi è mai stato indagato per aver aiutato barconi in difficoltà». Certo, lo stesso procuratore ha ammesso di aver dovuto incriminare i sopravvissuti a causa dell’esistenza della fattispecie di reato (e dell’obbligatorietà dell’azione penale), ma in gran parte questi vengono da paesi dove rischiano la vita, possono fare domanda come rifugiati e devono essere accolti. Mi auguro che chi vuole abrogare la Bossi- Fini salvi almeno le misure che riguardano l’asilo e che hanno reso più semplice vagliare le domande moltiplicando e distribuendo sul territorio le commissioni incaricate. Abbiamo bisogno di giudizi equilibrati.
Non ci saranno, e non ci sono state, leggi italiane responsabili di quelle paurose traversate, né ci sono peraltro misure capaci di bloccarle. Quei viaggi dipendono da fattori pesanti che non siamo in grado di governare agevolmente; soprattutto non può farlo il governo italiano da solo e in tempi brevi. Le due sponde del Mediterraneo sono caratterizzate da pesanti squilibri. Una parte è povera e giovane: è fisiologico quindi che i suoi abitanti vogliano passare dall’altra parte. Da tempo il demografo Antonio Golini propone un’integrazione economica e politica tra le due sponde che ridurrebbe i movimenti; una strategia intelligente, ma non facile da attuare, perché proprio il Sud Europa avrebbe più difficoltà ad affrontare la concorrenza economica di alcuni prodotti nordafricani, e perché non abbiamo di fronte una fascia di democrazie stabili. Comunque, il tema non è all’ordine del giorno e le due sponde resteranno a lungo attraversate da importanti flussi migratori. Si aggiunga che nel nostro mare confluiscono ora soprattutto esodi da paesi martoriati da guerre civili, e non solo dagli Stati rivieraschi, ma da tutta l’Africa. Abbiamo quindi a che fare con una sfida gigantesca, rispetto alla quale non esistono facili soluzioni, ma solo interventi parziali.
La tragedia di Lampedusa ha contribuito ad accelerare i tempi di adozione di alcuni utili provvedimenti. L’Italia ha ottenuto sia un rafforzamento di Frontex, l’agenzia europea per il coordinamento della politiche di controllo delle frontiere esterne, sia un ruolo chiave al suo interno. Il pattugliamento opera non solo per contrastare gli ingressi clandestini, ma anche, e molto, per prestare aiuto. Occorre ricordare che la nostra Marina Militare si è spesa con impegno nei soccorsi in mare al fianco della Guardia Costiera, lo abbiamo visto anche in questi giorni, e il presidente Letta annuncia una intensificazione dello sforzo aeronavale italiano. Ma non possiamo essere affiancati solo dalla piccola Malta. Le marine degli Stati dell’Unione dovrebbero intervenire in forza: nell’attuale quadro strategico non sembrano oberate di pesanti compiti. Sappiamo che il burden-sharing, la condivisione dei carichi che derivano dal prendersi cura del vaglio delle domande e dell’accoglienza dei rifugiati, non ha ancora trovato attuazione. Gli inviti alla solidarietà tra Stati, siano essi contenuti nei più recenti regolamenti dell’Unione in materia di asilo, sia nelle parole dei Commissari europei competenti, non sono cogenti: non obbligano. Di fronte agli esodi crescenti dalla Siria, più di due milioni finora, in gran parte accampati nei paesi confinanti, la Commissaria Malmström ha invitato non solo a sostenere economicamente i paesi confinanti (il Libano ha già ricevuto fondi), ma anche a condividere il carico di rifugiati che stanno entrando nell’Unione. All’Italia si fa notare che il nostro paese non è tra quelli che ne ospitano un numero particolarmente alto. Sia l’Italia, sia gli altri paesi ai confini dell’Unione dovrebbero chiedere un maggior sostegno non tanto nell’accoglienza definitiva, non solo economico (che c’è stato), ma un deciso supporto logistico, organizzativo nella fase di avvicinamento dei migranti in mare e della selezione dei richiedenti asilo. L’accoglienza finale non è l’unico snodo importante, né l’unico rispetto al quale serve una maggiore solidarietà tra i partner dell’Unione.
Quanto a noi, all’Italia, Lampedusa ha dato un’accelerata all’iter di una legge organica sull’asilo che si attendeva da oltre un ventennio. Il disegno di legge cerca anche di mettere ordine e di integrare molti provvedimenti frammentari presi nel tempo pure per recepire direttive e regolamenti europei. Insomma, nel sottofondo di un cicaleccio fazioso, si sono prese e si sono messe in cantiere decisioni non risolutive, ma utili. Molte voci autorevoli si sono levate per prospettare un’Europa più solidale, e non solo nei confronti dei migranti. Se prevarranno non lo so proprio, anzi, temo di no, ma la speranza resta.