Giulia Zonca, La Stampa 13/10/2013, 13 ottobre 2013
STATI UNITI DEL BELGIO: “È QUI LA FESTA?”
Un Paese, due lingue, un partito separatista stravotato in Parlamento e una squadra di calcio che cancella tutto: è il Belgio delle sorprese capace di pensare alla divisione del campionato in fiamminghi e valloni l’anno prima e di festeggiare una nazionale multietnica l’anno dopo.
Il Belgio si è qualificato ai Mondiali ed era quasi scontato visto il dominio nel girone, ma non è semplicemente un successo.
È una scalata e come ogni impresa trascina ben al di là del risultato. La nazionale che oggi è sesta nel ranking Fifa, e molto probabilmente sarà testa di serie ai sorteggi, languiva al sessantesimo posto della classifica durante la Coppa del Mondo del 2010. Si è trasformata, si è aperta, rinnovata e oggi ha una base che ricorda molto quello della Francia che ha vinto Mondiali ed Europei, quella che metteva insieme black blanc e beur. Qui i confini sono ancora più vasti. Christian Benteke, raffinata punta dell’Aston Villa è nato a Kinshasa e di origini congolesi sono anche Vincent Kompany, capitano del Manchester City e Romelu Lukaku, l’uomo che ha segnato i due gol venerdì contro la Croazia. Il talento del Manchester United Marouane Fellaini ha discendenze marocchine così come Nacer Chadli (che nelle giovanili giocava proprio per il Marocco) e il diciassettenne Zakaria Bakkali. Mousa Dembele, altra stella del Tottenham arriva, dal Mali e Axel Witsel, asso dello zenit San Pietroburgo, dalla Martinica. Tutti profondamente belgi così come i fiamminghi e valloni presenti in squadra. Le origini sono troppe per ripescare discorsi sull’identità, ognuno sente di appartenere solo alla propria maglia.
Tanto talento, giovani cullati fin dai vivai, curati anche all’estero, motivati ed educati ma c’è un uomo che ha messo insieme il lavoro degli scout e quello di madre natura: il ct Mark Wilmots. Lui ha cucito il gruppo, è arrivato nel giugno del 2012 e ha dato spazio a chiunque lo sapesse stupire. Nessun pregiudizio, una rosa forte, un turn over costante e una certa insofferenza ai leader. Lui è il primo che non si propone come allenatore ingombrante. Non ha il culto della personalità e non lo insegna. Il Belgio ha vinto otto delle nove partite giocate in qualificazione grazie al collettivo. E al divertimento.
Sono giovani eppure affidabili e oggi sono diventati l’incognita del Mondiale. Nella sua storia il Belgio è arrivato al massimo in semifinale, nel 1986, un risultato che nei lunghi anni bui era classificato come irripetibile e che oggi non è nemmeno considerato l’ultimo traguardo possibile. Non c’è limite alla qualità.
Il progetto parte da lontano, esattamente da 13 anni fa, quando la federcalcio decide di allestire un’accademia per ogni provincia. Tutte con lo stessa organizzazione, tutte connesse alla scuola che deve garantire 20 ore di allenamento a settimana e consentire ai ragazzi di non restare indietro con il programma di studi. Il cervello è un punto chiave del modello perché lo staff tecnico non capiva perché gli olandesi così simili fisicamente e persino socialmente fossero tanto più forti e la risposta è stata: «Perché a un bambino olandese basta scoprire di essere bravo con la palla per credersi fenomeno a un belga no, bisogna insegnarglielo». Il sistema è stato corretto, integrato, aggiornato fino a portare tutti allo stesso livello di preparazione ed è da quell’ambiente che è uscita la nuova generazione.
Dopo la qualificazione i giocatori sono corsi dai loro tifosi a chiedere: «Dove è la festa?» e il pubblico ha risposto «È qui». Ognuno nella lingua che più gradiva ma tutti contemporaneamente. Kompany ha ringraziato per il sostegno: «Sono orgoglioso di questa nazione, il Belgio è per tutti ma in questo momento specialmente per noi». Cioè per chi crede a una nazionale dalle mille origini e dall’identità unica, tanto forte da aver cambiato i sondaggi. Più il Belgio vince e più il partito separatista cala.