Antonio Gnoli, La Repubblica 13/10/2013, 13 ottobre 2013
SERGIO ZAVOLI
A volte, penso che Sergio Zavoli viva in una grande e soffice nube di parole. In fondo, la sua vita è stata in larga parte un commento al mondo: ai volti che lo hanno connotato, agli episodi che ne hanno cambiato il corso. Palinsesti di imprese sportive, politiche e culturali messi a punto e spiegati con un’eloquenza lieta di sé, ordinata e dinamica. Lasciato alla sua oratoria, Zavoli sembra viaggiare sulle rotte avvocatesche del sontuoso. I suoi novant’anni non si scompigliano tra i ricordi. Non si asciugano fino all’essenziale. Anzi, si dilatano pingui in una sintassi fastosa. Perfino letteraria. Vedo transitare a mezza altezza le idee di quest’uomo che è stato una parte importante della radio e della televisione italiana. Egli è afflitto da un raffreddore che romba sulle frasi come una motocicletta di altri tempi. Si scusa, si sforza, si anima. Si ribella all’idea che qualcosa possa interferire con le sue idee e i suoi propositi.
Cos’è l’ottimismo?
«È la predisposizione a vedere la vita a colori. Da bambino sognavo a colori. I miei mi portarono dal dottore. Niente di pericoloso, fu la diagnosi. Ma erano i primi anni Trenta e in Italia si indossava rigorosamente il nero».
Come è stata l’adolescenza ai tempi del fascismo?
«Più o meno, come vivere in un fumetto di avventure immaginarie. Sono stato anch’io giovane fascista. Prima “balilla” – con il fucilino finto, il fez con la nappa e i calzoncini di una lana che pizzicava – poi “avanguardista”. Si cantavano le canzoni temerarie di “una maschia gioventù”, nascevano i primi amori e cresceva l’orgoglio di essere i virgulti del Littorio. Quando Badoglio telegrafò di essere entrato con le sue truppe vittoriose ad Addis Abeba, ci sembrò di essere finalmente nella Storia».
Quanto durò il delirio?
«Abbastanza. Fu la guerra a risvegliarci. A Rimini, dove con i miei c’eravamo trasferiti, furono quasi 400 i bombardamenti. Il disastro me lo ricordo ancora: iniziò il 2 novembre del ‘43. Uscimmo da quella tragedia il 21 settembre del ‘44. Fu il giorno del mio compleanno e salutavo in questo modo la mia giovinezza».
Con i suoi veniva da dove?
«Da San Marino, dove mio padre era gerente di una società elettrica. E prima ancora da Ravenna, dove sono nato. Nel cimitero disteso lungo il canale, su cui vanno e vengono le petroliere, riposano i miei genitori. Giungemmo a Rimini nel 1926, avevo tre anni».
Cosa è stata per lei Rimini?
«La provincia come piccola patria delle cose che hanno la natura per durare».
E mai immaginare di andare oltre, di uscire da quel recinto?
«Certo, prendere un treno e fuggire, di notte, verso una nuova vita, era un alibi della fantasia provinciale, perché restare a Rimini, specie d’inverno, finiva dopotutto per essere una sonnolenta e benefica malattia dell’immaginazione. Fellini, che con gli occhi non sbagliava mai, lo raccontò benissimo con I vitelloni.
Diceva di aver depredato Rimini da cima a fondo».
Chi erano i “vitelloni”?
«Una congrega di spaesati, di lunatici, di immaginatori e di scontenti, capaci di passare una notte intera a interrogarsi sul niente. Vaneggiavano nei bar, o si immalinconivano in proprio, in attesa di qualcosa che li avrebbe scossi. Ma nulla accadeva. Ormai cresciuti, rimasero disorientati dal successo di Federico. Non si capacitavano».
Come è nata l’amicizia con Fellini?
«Federico era di tre anni più grande. Al liceo ci sfiorammo. Lui già aveva i pantaloni lunghi e i primi sussulti ormonali. La vera amicizia nacque a Roma, quando ero già alla Rai. Una mattina mi venne a prendere sotto casa, con un automobile color burro e la tappezzeria verdina. Mi disse: dai Sergio, che si va a Ciampino. A fare che? Chiesi. È una sorpresa, disse. Arrivammo che il sole era alto. Ci sdraiammo sul terrapieno che delimitava l’aeroporto e vedemmo gli aeroplani atterrare passando sulle nostre teste. L’innocenza un po’ infantile di certi gesti lo affascinava».
Come pure lo affascinava un certo tipo di femminilità?
«In questo era molto barocco. Amava le forme debordanti e anche un po’ losche».
Sta pensando alle sue celebrate puttane?
«A quelle, ma soprattutto al casino. Per lui fu una forma un po’ adescante di una pulsione infantile mai del tutto risolta, a giudicare dalle tante “confessioni” cinematografiche. Ma non fu un frequentatore. Gli bastavano i resoconti fantasiosi di “Pistolone”, che sull’argomento era una vera autorità. Del resto, il soprannome di quel personaggio, che egli frequentò in gioventù, non gli era stato dato a caso».
Cosa voleva dire “felliniano”?
«Era un aggettivo che rifiutava. Il suo cinema non poteva avere derivati. Però, quando gli chiesi quale fosse il film non suo che meglio gli somigliava, si limitò a dirmi che il più sorprendente era il cinema di Kubrick».
Un cinema poco onirico.
«È vero, i sogni per Federico erano tutto. Tra noi avveniva spesso il rito della telefonata mattutina delle sette. Era l’occasione spassosa e intrigante per raccontarci di che razza fossero i nostri sogni».
E lei cosa sogna?
«Di tutto, a volte ricordo, altre rimuovo. Una mattina raccontai a Federico un sogno ricorrente: ero in equilibrio su una corda d’acciaio tesa tra due finestre. Facevo alcuni passi e poi la corda spariva e io precipitavo. Mi sembrava così di sfracellarmi e infine di morire. Federico ascoltò, poi disse: “Chi ti dice che sia la fine del viaggio e non l’inizio?”».
Di quali altri registi è stato amico?
«Di tanti autori. Frequentai spesso Antonioni. Ero appena giunto a Roma, con un contratto di radiocronista. Lo stipendio era bassino. Per arrotondare mi occupavo anche di cinema. E quando Michelangelo girò Il grido fui suo assistente alla regia. Aveva una personalità opposta a quella di Federico: era ordinato e analitico, lo consideravo l’uomo della forma esatta».
Quando lei parla, Zavoli, sembra di ascoltare un libro stampato.
«Faccio questa impressione?».
È come se le sue parole siano sempre alate.
«Al contrario! Non sono un esteta, non ho il gesto della parola».
La ricercatezza sì.
Ma anche la più levigata. Come mai ha scritto poesie?
«Perché sono un uomo normale. Diceva Aragon che solo il normale è poetico. Se la poesia prende la venatura lirica diventa stucchevole. Sono contro i versi magniloquenti. L’incertezza è la nostra condizione. Più invecchio e meno credo in ciò che dico. Vorrei lasciare dei dubbi su di me. Non ho nessun desiderio di essere un esempio di sintassi, di forma, di vita. La mia ricchezza oggi è la mia inquietudine».
Come definirebbe la ricchezza, quella vera?
«Per quasi tutti è un’astrazione. Viviamo tempi di penuria, è a questa che dobbiamo rispondere. Diceva Franco Basaglia, quando realizzai per la televisione un’inchiesta sui manicomi, “chi non ha, non è”. I poveri, intendeva dire, stentano a conservare il diritto a essere uomini. Creature senza voce e senza diritti, che valgono meno di niente. È questo il mondo che volevamo?».
Esiste la generosità?
«Sì, almeno fino a quando esisteranno le persone generose. Una di queste, davvero straordinaria, fu Cesare Zavattini. Mai conosciuto, nel mondo dello spettacolo, un signore capace di donare e di donarsi come lui».
A proposito del suo lavoro chi ricorda ancora oggi con sorpresa?
«Beh, sicuramente Amadeo Bordiga che diresse con grande carisma il Partito Comunista. Mi concesse la sola intervista filmata della sua vita perché andava matto per il ciclismo: era un tifoso di Vito Taccone, e vedeva regolarmente il
Processo alla tappa».
Lei ha raccontato l’epica del ciclismo. C’è ancora un’epica da narrare?
«Il ciclismo è stato il mito della fatica leggendaria e gratuita. Raccontare quell’epica, ancora innocente, povera, disadorna, fu un modo per narrare un paese che usciva dalla guerra. La gente si riconosceva nei suoi eroi: capitani e gregari. E questi ultimi sprigionavano un’energia che rasentava il mistico. Non credo che ci sia metafora migliore, di quel ciclismo, per dire cosa di grande aveva l’Italia e cosa di piccolo ha oggi. Ma le idealità civili, spero, prima o poi, si rifaranno vive ».
Alcuni si chiedono: «Quando?».
«Dipende solo da noi. Il futuro non ci aspetta chissà dove per processare la nostra imprevidenza. Il futuro provvede subito. Ogni giorno ho l’impressione che sia già ieri. Ignazio Silone disse che se il mondo avesse continuato così, parlare e mentire sarebbero diventati sinonimi. Oggi è la velocità il demone che ci guida. Eppure, non c’è cosa che stia cambiando così lentamente come la distrazione, la dimenticanza, l’egoismo. La sola cosa veloce che vedo è la corsa verso la fine del buon senso e della tenerezza. Ricordo una battuta tremenda di Flaiano: “Tutto quello che non so, l’ho imparato a scuola”. Mi colpisce l’essere inadeguati e la mancanza di stile».
Qual è il suo stile?
«Alla mia età lo stile è aspettare dignitosamente. E che sperare sia il verbo concesso a questa attesa».
Crede in Dio?
«Credo di credere. Ma è una fede ingannevole che non conosce il “credere assentendo” reclamato da Sant’Agostino contro l’opportunismo. La mia fede non cola lungo i ceri».
Vuole dire che il sacro non è in chiesa?
«Può essere ovunque. Ma sappiamo ancora trovarlo? Sono troppo vecchio per rimettermi in cammino».
Come vive la sua vecchiaia?
«Ho imparato a essere mortale e mi costa vedere assottigliarsi l’abitudine di vivere. Siamo nati per vivere, non per morire, disse Papa Giovanni. E Federico in 8 e mezzo lascia che un prelato alto, ossuto, intransigente si rivolga a Marcello dicendogli: “Ma chi ha detto che siamo nati per essere felici?”».
Ma non siamo neanche nati per essere infelici.
«È vero. Federico un giorno mi chiese: “Non sei curioso di vedere come va a finire?”».
E lei?
«Io credo che la morte si sconti vivendo. Del resto, lo aveva già detto Ungaretti».
C’è morte e morte, come c’è vita e vita.
«La dignità unisce entrambe. Anche se ci si può trovare in qualcosa che non ci aspettavamo».
Qualche tempo fa lei ha subito una rapina in casa, dicono le cronache, molto violenta. Cosa le resta di quel trauma?
«L’ho subita con sconcerto e rabbia. Sperimentando i “clic” della roulette russa. Capivo che erano lì non per ammazzarmi e, forse, devo essere sembrato molto coraggioso. Mi parvero sulle prime sorpresi, poi barbaramente indispettiti. Ma è qualcosa che segna e resta come l’ombra di un incubo ».
Cosa pensa del suicidio di Carlo Lizzani?
«Ho provato pena. Occorre rispetto. Ho conosciuto diverse creature, dalla personalità forte che, decidendo di farla finita, si sono gettate dai balconi o dalle finestre. Dove nasce un gesto così estremo? Non lo so. Penso, però, che sia il sentimento del niente che ti possiede e dal quale ti vuoi liberare, togliendoti di mezzo».
L’ha mai sfiorata questo senso del nulla?
«No, al contrario. Io credo che la vita uno la debba condividere con le persone che sanno ridere. Se no, è un disastro».
Solo ridere?
«E sognare. Ricordo che da ragazzo si favoleggiava di un treno che ogni quindici giorni sostava a Rimini alle 2 e 47 del mattino per fare rifornimento d’acqua. Sapevamo che era un treno diretto in Oriente. Si chiamava “la valigia delle Indie”. E una notte, di un 31 dicembre, noi ragazzi ci mettemmo ad attenderlo lungo il cavalcavia».
E il treno arrivò?
«Giunse un lungo serpente, color verde scuro, con lo stemma dorato al centro dei vagoni. Si fermò. E quando improvvisamente si alzò una tendina, vedemmo una coppia che brindava al capodanno. Poi il treno ripartì. Tornammo a casa con il magone, ma ciascuno con la speranza segreta di partire per chissà per dove. E, in quel momento, io pensai che solo chi crede fino in fondo ai propri sogni, può davvero sperare di realizzarli. Fu Fellini a dirmi: “Io credo che l’unico vero realista è il visionario”».