Mario Serenelli, La Repubblica 13/10/2013, 13 ottobre 2013
MEG RYAN
PARIGI C’è un ristorante a New York, meta di gite scolastiche e pellegrinaggi turistici. È il “Kat’z Delicatessen”, sulla Houston Street, East Village. È lì che un quarto di secolo fa è stata girata una delle più famose scene della commedia cinematografica, il finto orgasmo dimostrativo di Meg Ryan in Harry, ti presento Sally davanti a un imbarazzatissimo Billy Crystal in una sala allibita. Si ricorderà che a missione compiuta l’attrice riaddentava tranquillamente il suo sandwich, mentre al tavolo accanto un’attempata signora s’affrettava a ordinare «Quello che ha preso la signorina». Tra le cento battute più memorabili del cinema, questa è la trentatreesima nella classifica dell’American Film Institute. Da quando il film di Rob Reiner uscì in tutto il mondo, nell’89, una foto della Ryan giganteggia sopra il tavolo hot del ristorante. La scena aveva richiesto innumerevoli ciak, e altrettanti finti orgasmi, entrambi coronati a fine riprese dal regalo del proprietario del locale alla troupe: «Un enorme salsiccione». Lo ricorda, ridendo, la stessa protagonista, incontrata in una innocua terrasse parigina durante un break-vacanza che lei spaccia per definitivo anche se va minacciandolo da almeno cinque anni: «Basta, tra me e Hollywood, ‘‘è finita! Dopo i quaranta, non esistiamo più per gli schermi Usa», e intanto è alla terza serie tv di Web Therapy: «È una sorta di “psico-lettino” via internet, tre minuti a botta, anziché l’interminabile blabla delle sedute classiche di un’ora».
Il rischio, in un’intervista con Meg Ryan, è di fermarsi lì, chiedendo tutto di tutto su quella sequenza di culto: come se, davanti a Sharon Stone, ci si impuntasse solo su quel punto là o si obbligasse Anita Ekberg a ripetere la doccia nella Fontana di Trevi. Per di più la Ryan, botox a parte, è oggi come ieri l’eterna ragazzina, allora di ventisette anni oggi di cinquantadue (li compirà il 19 novembre). Tanto vale, dunque, soddisfare subito la principale curiosità e togliersi il pensiero, secondo l’insegnamento di Groucho Marx che dopo le prime righe di Memoirs of a Mangy Lover scriveva: «E ora che abbiamo liquidato la questione sesso, possiamo occuparci del resto».
Del resto è lei la prima a incoraggiare, maliziosa e complice: «Sa chi è la signora che chiede “quello che ha preso la signorina”? Estelle Reiner, la madre del regista». E a chi va il merito della scena? «È una pensata collettiva. Durante le riprese, il regista e la sceneggiatrice, Nora Ephron, si resero conto che occorreva riequilibrare i due protagonisti: Nora ha pensato all’orgasmo simulato, io ho suggerito il ristorante strapieno, Crystal ha trovato la battuta-clou della signora». E gli innumerevoli compagni che le sono stati assegnati dalle cronache rosa, da Andy Garcia a Russell Crowe, non sono mai stati sfiorati dal dubbio dopo averla ammirata in quella scena? Scoppio di risa: «Non ci posso credere che nessuno m’abbia mai rivolto prima questa domanda! Senza entrare in dettagli personali, posso fornirle un dato statistico: durante le proiezioni-test, a divertirsi erano solo le donne, mentre gli uomini ne uscivano intontiti ». Altri retroscena? «Sa da chi ho saputo che ero diventata una gigantografia al “Kat’z Delicatessen”? Da mia figlia (Daisy True, la bambina cinese adottata sette anni fa, ndr).
Corse verso di me al ritorno dalla gita scolastica: “Mamma, mamma, eri nella foto!” mi ha detto. Ha solo otto anni: le ho raccontato una bugia». E com’è arrivata al ruolo che l’ha lanciata? «Il regista aveva già scelto Molly Ringwald di Bella in rosa, che all’ultimo ha rinunciato e adesso interpreta a Broadway l’adattamento teatrale. Forse è stata decisiva, al provino, la mia risposta sull’amicizia uomo-donna, perno del film: sì, ho detto, ci può essere semplice amicizia. Ho molti amici maschi e il sesso è fuori questione». Oggi risponderebbe ancora così? «Certo. Lei no?».
Difficile sostenere il suo sguardo, e non — come potrebbero sostenere i maligni — per via dei troppi ritocchi di chirurgia estetica. La Ryan rimane l’impertinente scolaretta proiettata nei nostri sogni dal grande schermo. Oggi zietta di se stessa, conserva intatta la verve da nipote con quegli incantevoli occhi velati d’azzurro e l’immutato sorriso di ciliegia, sempre sospeso tra il sognante e la presa in giro. Zatteroni e tubino neri su cui sfiammano capelli da ex adolescente. La scorsa estate al Taormina Film Fest l’avevamo vista divertirsi davanti alle clip birichine montate dal direttore Mario Sesti. Tra queste, la dimenticabile apparizione in Top Gun di Tony Scott, suo primo volo accanto all’altro divo agli esordi, Tom Cruise. «Avevo due scene. “In una sei felice, nell’altra sei triste”, era stata l’unica indicazione del regista. Altro che Actor’s Studio. E a poco più di vent’anni non avevo l’esperienza che di qualche ruoletto al limite della comparsa: nell’ultimo film di George Cukor, Ricche e famose, e nel quasi-ultimo di Richard Fleischer, Amityville 3-D,
oltre che nella sitcom As the World Turns.
Dove m’ero fatta apprezzare perché capace di piangere a comando. Per me fare l’attrice è stata una distrazione di gioventù. Da ragazza ero sicura di diventare una reporter, e se così fosse andata forse ora sarei qui al suo posto. Ho studiato giornalismo a New York, all’inizio recitavo solo per arrotondare la paghetta da universitaria». Poi il cinema ha finito per scandire la sua vita, anche quella sentimentale: «Quasi subito, con Dennis Quaid, sposato nel ’91. L’avevo conosciuto a ventisei anni in Salto nel buio di Joe Dante: sul set ero la sua ragazza, lui un ufficiale miniaturizzato che finiva iniettato per errore nel corpo d’un timido commesso. Un bel triangolo... Siamo stati insieme dieci anni e abbiamo avuto un figlio, Jack Henry, oggi ventunenne, anche lui fa attore». Il viavai realtà-finzione l’ha stordita o aiutata? «Tutt’e due le cose. Non mi è mai piaciuto dover recitare anche nella vita la parte dell’inguaribile romantica, carina e frizzantina, modellata sui personaggi che mi hanno reso celebre. L’etichetta cinematografica della girl friend fedele e sognatrice mi ha creato problemi anche nel privato. Per questo, appena ho potuto, ho cercato di dare uno schiaffone alla mia immagine, interpretando per esempio nel ’94 una giovane madre alcolizzata in When a Man Loves a Woman.
Ruolo che ha coinciso positivamente con la realtà, perché mio marito stava attraversando proprio un periodo d’alcolismo: grazie a quanto imparato nel film ho potuto capirlo meglio e quindi aiutarlo». Per tutti, però, lei rimane la vagheggiata fidanzatina della porta accanto, la bionda silhouette dell’innamorata ideale che, film dopo film, da sceneggiatrice o da regista, le ha cucito addosso Nora Ephron, scomparsa l’anno scorso: «Le ero molto legata. La sua morte ha colpito moltissimo sia me che Tom Hanks. Aveva saputo farci diventare un tandem perfetto con soli due film, Sleepless in Seattle e C’è post@ per te.
Con lei è cominciata una nuova era per la commedia sofisticata, vanto del cinema americano di quegli anni. Ne conosceva i due princìpi base: l’intelligenza dei dialoghi, dai ritmi magicamente calibrati come partiture musicali, e la miracolosa alchimia dei partner, che ha evidentemente funzionato tra me e Crystal e, di nuovo, con Hanks, anche se resta inspiegabile l’empatia tra attori, dalle affinità mai naturali ma sempre apparenti».
Meg Ryan è stata diretta di tanto in tanto anche da registe: oltre alla Ephron, Diane Keaton e, dieci anni fa, Jane Campion, nel thriller erotico In the Cut.
Avverte sostanziali differenze rispetto alle regie maschili? «Assolutamente. Il film della Campion rappresenta un cambiamento radicale nella mia carriera: sul set ci capivamo subito, si può dire che siamo state entrambe autrici del film. Con i registi non m’è mai capitato. Per un uomo non sei mai il soggetto di un film ma l’oggetto. Una donna, invece, vede quel che vedi tu, sente quel che senti tu, è sempre interessata a quello che provi. Per capirci: la scena nel film della Campion (quella in cui lei è nuda e fa sesso con l’ispettore Malloy/Mark Ruffalo, ndr) l’ho vissuta come l’esatto contrario di quella del finto orgasmo al “Kat’z Delicatessen”».