Paolo Mauri, La Repubblica 13/10/2013, 13 ottobre 2013
MIO PADRE ITALO CALVINO
«Io appartengo alla generazione che si è fatta più sui poeti italiani che sui narratori… appartengo a una letteratura italiana che ha la sua spina dorsale nella poesia più che nella prosa e negli scrittori che scrivono stando attenti a ogni parola, così come devono stare attenti i poeti» raccontava Italo Calvino a Gaetano Rando in una intervista dei primi anni Ottanta che ora si può leggere nel volume mondadoriano curato da Luca Baranelli Calvino pensava a Eugenio Montale e al primo Montale in particolare, avendo qualcosa da ridire sull’ultimo che, dopo
aveva scelto un linguaggio più colloquiale.
In un’altra occasione aveva detto: «Montale fin dalla mia adolescenza è stato il mio poeta e continua a esserlo».
La dichiarazione è preziosa. E le affiancherei subito quell’altra, che si trova in una lettera aperta ad Anna Maria Ortese del 1967 in cui Calvino dice di aver trovato in Galileo un maestro di stile capace, quando parla della Luna, di raggiungere, oltre alla grande precisione, una «rarefazione lirica prodigiosa».
Non è strano dunque che oggi al nome di Calvino venga quasi sempre associata una parola: quella «leggerezza» cui dedicò una delle Lezioni americane uscite postume e che fu anche una linea guida nella sua ricerca di narratore. La leggerezza dello «scoiattolo della penna», secondo la celebre definizione di Pavese, a proposito de Il sentiero dei nidi di ragno quando narrando il vero della Resistenza si lasciava tentare dal fiabesco, la leggerezza che consisteva nel “togliere” e che lo portò a tanto ragionare intorno ai suoi esordi che ancora a vent’anni di distanza gli faceva quasi desiderare di non avere scritto quel libro.
Calvino non ci ha dato il grande romanzo-cattedrale alla Thomas Mann, del resto lontano dalla tradizione italiana, ma ha scelto di muoversi — e con grande libertà e intelligenza — ancora una volta con strumenti più leggeri, ma non per questo meno lavorati e incisivi. Nel ’63, dopo un lungo silenzio (Il cavaliere inesistente è del ’59) esce La giornata di uno scrutatore.
Lo scrittore ha quarant’anni. L’esperienza a cui si rifà il racconto, la partecipazione come scrutatore nel seggio elettorale allestito presso il Cottolengo, casa di ricovero per persone spesso incapaci di intendere e volere, risale a dieci anni prima, alle elezioni del ’53. Amerigo Ormea, alter ego dello scrittore, è stato nominato dal Pci scrutatore, con il compito di osservare e se possibile contrastare gli abusi del partito di maggioranza che pilotava i voti dei degenti con la complicità delle monache. Notò Guido Piovene recensendo il libro sulla Stampa che si trattava di un romanzo-saggio, «l’unica strada, a mio parere, sulla quale può incamminarsi un vero romanzo moderno».
L’oggettività era stata al centro di una lunga meditazione di Calvino, ed era stata il rovello di un’epoca intera. Ma, come ricorda il bellissimo titolo di una raccolta di saggi e interventi su letteratura e società, certi discorsi si fanno e rifanno per metterci poi Una pietra sopra.
All’altezza del 1980 Calvino osservava: «Certo il mondo che ho oggi sotto gli occhi non potrebbe essere più opposto all’immagine che quelle buone intenzioni costruttive proiettavano sul futuro. La società si manifesta come collasso, come frana, come cancrena (o nelle sue apparenze meno catastrofiche, come vita alla giornata); e la letteratura sopravvive dispersa nelle crepe e nelle sconnessure, come coscienza che nessun crollo sarà tanto definitivo da escludere altri crolli». Da tempo Calvino s’era inoltrato in esperienze letterarie che tenevano conto dell’arte combinatoria e dell’infinita progettualità del Caso. Si era misurato con Il castello dei destini incrociati a ridosso dei tarocchi e da poco con le avventure di un lettore in Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Era ormai postmoderno? Non so, non saprei. Mi sembra che racchiudere un’esperienza così larga in una formuletta sia per lo meno poco proficuo. «Non chiedermi la parola…». Non diceva proprio così Montale? E Calvino non era, a un certo punto, andato a sedersi sulla Luna per meglio osservare quello che succedeva ai terrestri? Palomar torna a Galileo e a Leopardi.
Lo scrittore che aveva cercato di raccontare la realtà e che poi aveva dato spazio alle invenzioni fantastiche per raccontarla ancora meglio, dall’alto degli alberi o da dentro la corazza del cavaliere inesistente, ora aveva dotato il proprio laboratorio anche di un potente telescopio. Grazie a quello intrecciava cosmicomiche e decifrava i profili di città invisibili. E spesso, semplicemente guardava. Alla fine anche senza telescopio, come quando mandò a questo giornale un pezzo breve e mirabile sul volo degli storni nel cielo di Roma. La letteratura è ricerca e non bisogna porle dei limiti.
Oggi il novantenne Calvino non credo direbbe altrimenti.