Francesco Battistini, Corriere della Sera 13/10/2013, 13 ottobre 2013
IL BRIGATISTA CHE VA A SPIEGARE LA NON-VIOLENZA AI PALESTINESI
DAL NOSTRO INVIATO AL TUWANI (Cisgiordania) — «Salam aleikum, spero di non annoiarvi. Mi chiamo Franco, ho 58 anni, vivo in Italia con la mia famiglia. A 18 anni presi a riferimento la resistenza palestinese ed entrai nelle Br…». «Io mi chiamo Giovanni. E sono qui per parlarvi di quanto è successo con l’uomo che mi è di fianco. E raccontarvi chi era mio padre: un uomo, un carabiniere…». Il microfono che fischia. I bimbi che vociano. Due camionette dell’esercito israeliano che scrutano da lontano. In cima a una pietraia assolata dove nemmeno le capre hanno da brucare, sotto una cerata blu e davanti a sei file di sedie di plastica, i conti ormai chiusi del nostro passato si confrontano con quelli, apertissimi, d’un conflitto interminabile. Più che la coppia, è strano il luogo. Franco è Bonisoli: il brigatista che rapì Moro e uccise la scorta, quattro ergastoli e 105 anni di condanna, dopo ventidue tornato libero. Giovanni è Ricci: il figlio dell’appuntato Domenico, che era un bambino quando Bonisoli gli ammazzò il papà in via Fani. «Voi — riassume lo speaker palestinese a decine d’orecchie sospettose — sapete bene come ci si sente male, quando uno ammazza qualcuno della tua famiglia. Ecco, loro due erano l’uno contro l’altro. Come noi con gl’israeliani. Oggi, loro due sono qui a dirci che il figlio dell’assassinato è diventato amico dell’assassino. E che la lotta armata non è necessaria, per la resistenza».
Né con lo Stato (d’Israele), né con le Br. La prima lezione di non-violenza agli arabi si tiene il mezzogiorno d’un sabato sulle colline che dominano le vallate di Hebron, laggiù la tomba d’Abramo che voleva sacrificare Isacco. Stasera si replica a Gerusalemme, stavolta con gli ebrei. Vittima e carnefice, sempre insieme: «So Far So Close» , così lontani così vicini, recita il titolo delle conferenze. C’è da dire che il pubblico non è una folla — 46 persone, la metà vecchie contadine — e che l’incontro costa, non solo alle coscienze: attraverso la Comunità Papa Giovanni di don Benzi, il workshop è finanziato con 370 mila euro dell’Unione Europea. Soldi che non si risparmiano, in tempi di vacche magrissime, pur di «far conoscere a palestinesi e israeliani altre esperienze di non-violenza da prendere a modello». Due anni fa, qui sono venuti i sudafricani. L’anno scorso, i kosovari. Ora tocca all’ex brigatista Bonisoli, una settimana di tour, secondo un calendario già apprezzato da Tony Blair, da ambasciatori ed europarlamentari, da 40 delegazioni e da 700 delegati che, mese dopo mese, non hanno mai fatto mancare la loro presenza. Ad Al Tuwani i giovani volontari italiani condividono sul serio, e con convinzione, le sofferenze dei piccoli villaggi palestinesi minacciati dai coloni. Vivono con poco e per lunghi periodi in case diroccate, «proprio come i palestinesi», spesso senz’acqua e senza luce. Seguono e predicano la non-violenza, anche di fronte alle peggiori provocazioni. «Entriamo nei conflitti armati con la sola arma del dialogo», spiega Teresa, marchigiana di 23 anni. Nessun imbarazzo, ad accostare gli anni di piombo e il piombo dei Territori: «Abbiamo portato Bonisoli dalle famiglie, una mamma ci ha detto: è importante che i miei ragazzi lo conoscano, ho un figlio di 14 anni che è già stato in carcere…».
La storia dei nostri cattivi maestri non sembra servire da maestra di vita, ai pastori di Hebron. L’accoglienza è cortese, ma diffidente: «Voi italiani siete sempre venuti da amici, amici come lo era Carlos…», dice il vicesindaco del paese, Jemaal Bihess, che evidentemente ha un’altra idea di dialogo. La citazione del terrorista sanguinario non turba Bonisoli: «L’uso della violenza armata non è servito a migliorare la società e nemmeno noi stessi, la gente in Italia ci ha accettati solo quando abbiamo lasciato le armi…». «Ma l’occupazione israeliana non lascia spazio alla non-violenza! — insistono dalla platea — Noi non siamo terroristi, siamo l’unico popolo al mondo sotto occupazione da 65 anni! La nostra storia non è la vostra…». «Capisco — ribatte Bonisoli — lasciare le armi magari non basta. Ma bisogna far conoscere al mondo la resistenza pacifica…». «Tu ascolti le news israeliane, ma quando eri nelle Br non accettavi che a spiegare le tue ragioni fossero gli altri! La resistenza non si fa con le menzogne e con la pace». «Io non voglio insegnare niente — Bonisoli arretra un po’, intimidito — mi hanno chiesto solo di raccontare la mia storia…». «E allora spiegalo bene alla gente: la resistenza deve continuare! Se no, non si vince…». Sotto la tenda, s’aggirano i volontari con una frase di Mandela sulla t-shirt: «Un vincitore è un sognatore che non si è mai arreso». Certi sogni costano. E non sempre s’avverano.