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 2013  ottobre 12 Sabato calendario

UNO STERMINIO ESEGUITO CON MATITA E TACCUINO


Mai un ripensamento, un cenno di disponibilità o una parola di attenzione per le vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Era stato condannato all’ergastolo. In ogni occasione pubblica o privata ha riproposto la sua tesi, quella di un soldato che esegue gli ordini, fedele alle logiche, ai comportamenti e ai linguaggi dell’ideologia nazista: una convinzione profonda di superiorità intrisa di odio e intolleranza. Erich Priebke aveva compiuto cento anni lo scorso luglio; dagli arresti domiciliari ha continuato a sfidare memorie e lasciti di una vicenda drammatica che ha attraversato i decenni del lungo dopoguerra. Il nastro da riavvolgere porta lontano, nel cuore della seconda guerra mondiale. Era lui, impeccabile con la divisa tirata a lucido, nel pomeriggio assolato del 24 marzo 1944 a chiamare i condannati a gruppi di cinque; gridava i nomi in un italiano sicuro e con meticolosa attenzione segnava a matita una crocetta per quelli che erano scesi verso l’interno delle grotte, incontro alla morte. Una lunga chiamata preludio a un massacro efferato. La sua voce era l’ultima cosa che i prigionieri ascoltavano, mentre la lista dei 335 caduti si completava di nomi e storie così diverse: generali e straccivendoli, operai e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, liberali e comunisti, e tanti aggiunti alla rinfusa, per raggiungere il numero stabilito confutando così la logica terribile della rappresaglia in stile nazista. Il giorno precedente un attacco partigiano in via Rasella aveva colpito l’undicesima Compagnia del terzo Battaglione dello SS Polizei Regiment Bozen causando 33 morti. Uno per dieci era la ferrea logica dell’occupante; per un tedesco caduto sarebbero passati per le armi dieci italiani, oppositori delle leggi di guerra del terzo Reich. In anni successivi il nesso tra l’azione partigiana e la rappresaglia nazista viene proposto come paradigma di lettura sulla Resistenza e i suoi errori, si arrivò perfino a sostenere che sui muri di Roma fossero comparsi manifesti che chiedevano ai partigiani di consegnarsi preventivamente alle autorità naziste. Con fatica e tenacia la verità si è fatta strada, la logica degli eventi ha prevalso nelle ricostruzioni della storiografia più qualificata e nelle aule di giustizia che hanno affrontato la vicenda. Con la necessaria distinzione tra il giudice e lo storico da più parti è stato affermato che la ritorsione delle Ardeatine fu condotta rapidamente e in segreto; ebbe inizio 22 ore dopo l’attentato e nessuno seppe nulla, tranne i protagonisti coinvolti: esecutori, mandanti e condannati a morte. Il 25 marzo verso mezzogiorno (quando uscivano i quotidiani in tempo di coprifuoco) un comunicato dell’agenzia ufficiale Stefani annunciò che «Il comando tedesco ha ordinato che per ogni tedesco ammazzato dieci criminali comunisti-badogliani siano fucilati» E con lapidaria precisione concludeva: «Quest’ordine è già stato eseguito». La notizia fa il giro della città a cose fatte. Priebke sa tutto, conosce i dettagli, è a Roma da tempo, ben prima dell’8 settembre del ‘43, sembra che abbia iniziato come attaché di polizia e interprete nelle missioni romane del Führer. Con l’ordine eseguito alle spalle, a guerra conclusa si rifugia in Argentina, a San Carlos di Bariloche, sotto l’ombra delle Ande. Una vita in disparte con moglie e figli fino a quando – il 6 maggio 1994 - un cronista della rete televisiva statunitense «Abc» non lo scova a seguito di una soffiata del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista Sam Donaldson lo segue e lo incalza, gli chiede delle sue giornate romane, di un massacro lontano, lo accusa di essere un criminale di guerra. Priebke nega, poi ammette di aver eseguito degli ordini «contro chi meritava la morte». L’intervista arriva in Italia, scuote coscienze e riapre ferite mai sanate. Il criminale nazista viene estradato, una lunga stagione di processi e ricostruzioni investe il tessuto civile. La condanna arriva implacabile portando con sé amarezze e dolori. Forse questa morte è un segno, a pochi giorni dal settantesimo anniversario della grande razzia del 16 ottobre 1943: si può chiudere una pagina dolorosa e far sì che ciò che è accaduto non possa ripetersi.