Massimiano Bucchi, la Repubblica 12/10/2013, 12 ottobre 2013
LA BABELE DEMOCRATICA
Le fiabe terrificanti della tradizione contadina; un massacro di gatti perpetrato da un gruppo di tipografi parigini; i rapporti di un ispettore di polizia su scrittori pericolosi per il regime; la classificazione e suddivisione dei saperi nell’Encyclopédie di Diderot e D’Alembert. Queste le singolari chiavi di accesso che Robert Darnton sceglie per ricostruire i “modi di pensare” nella Francia del Settecento. Il grande massacro dei gatti., ripubblicato in questi giorni da Adelphi e tradotto in una ventina di lingue, è uno dei suoi libri di maggior successo. Storico delle idee con un breve ma significativo background giornalistico – un’esperienza giovanile alla cronaca nera del New York Times che talora affiora nelle sue vivide narrazioni – Darnton insegna ad Harvard dove dirige anche la biblioteca universitaria, la più grande biblioteca accademica e sistema bibliotecario privato del mondo.
Come responsabile della biblioteca di Harvard lei si è espresso spesso a favore del cosiddetto open access. Vede un rapporto tra queste posizioni e il suo lavoro di studioso dell’Illuminismo e delle varie forme di circolazione del sapere?
«C’è sicuramente una connessione, anche se non è arrivata intenzionalmente. Come studioso dell’Illuminismo sono sempre stato attratto dall’idea di “Repubblica delle lettere”: una Repubblica senza confini, aperta a tutti, egalitaria. È un’idea che forse precede addirittura l’Illuminismo, centrale per il modo in cui l’Illuminismo vedeva se stesso. Oggi con i media digitali abbiamo la possibilità di realizzare quella che all’epoca era forse un’utopia. Così, quando mi sono trovato a capo della biblioteca di Harvard, con i suoi 17 milioni di volumi, ho cercato di fare il possibile per mettere a disposizione questo patrimonio non solo a docenti e studenti, ma a tutto il mondo, cercando di evitare che fosse monopolizzato da colossi come Google. Ci vorrà ancora molto tempo, e ci sono ancora molti problemi da risolvere, ma con il progetto Digital Public Library of America (www.dp.la) oggi siamo già in grado di offrire libero accesso a oltre 4 milioni di contenuti digitali».
Che cosa sono i modi di pensare, gli “stili culturali” che il libro cerca di ricostruire?
«L’ambizione è quella di far emergere i modi in cui l’esperienza è organizzata attraverso schemi concettuali, incluso il linguaggio. C’è una tonalità negli scambi sociali che è peculiare a una certa società o ad un gruppo sociale in un certo periodo e luogo, un certo “idioma” per così dire. Naturalmente la pretesa del libro non è quella di ricostruire definitivamente la “visione del mondo” dei contadini francesi dell’epoca attraverso le fiabe che si raccontavano, ma introdurre a un certo modo di fare storia, mettere insieme diverse informazioni in un disegno che si avvicini il più possibile all’originale».
Esiste dunque una specificità dei modi di pensare, degli stili culturali? Uno stile francese diverso da quello tedesco o italiano?
«Naturalmente non si possono sottovalutare le differenze regionali, a partire dal fatto che molti francesi dell’epoca che io studio non parlavano nemmeno il francese! Tuttavia già autori come Delarue parlavano di una “francesità” che emerge ad esempio confrontando le fiabe popolari con quelle tedesche dello stesso periodo. In un libro più recente mi occupo di come le forze dell’ordine francesi, a metà Settecento, davano la caccia agli autori di poesie e canzoni popolari ritenute sediziose, seminando di spie le sale da caffè. Queste composizioni si sentivano dappertutto e facevano probabilmente la funzione di notiziari per l’epoca; esse rivelano un tono, un inconfondibile idioma comune, anche nella parte musicale. Questi poeti e musicisti di strada, oggi completamente dimenticati, formavano una vera e propria subcultura che non era disconnessa dalla “cultura alta”; alcuni di loro erano amici di Diderot e lui stesso fa riferimento a questa tradizione, ad esempio in Jacques le fataliste. La cultura orale non era isolata da quella degli intellettuali, le correnti culturali si muovono continuamente verso l’alto e verso il basso…».
La specificità di stili culturali e modi di pensare resiste anche oggi, in un’epoca di intensa comunicazione globale?
«Direi di sì, seppure con prudenza… oggi è facile parlare di “villaggio globale” ma un’immagine scattata da uno smartphone in Egitto è un oggetto culturale mediato da una specifica sensibilità. Tutto il mondo può condividere un repertorio di immagini, suoni ed eventi; le correnti culturali viaggiano in tutto il mondo così come nel Settecento viaggiavano tra i caffè letterari e le campagne. Questo non significa che tutto si sia appiattito e certamente non cancella le specificità culturali…».
Pensa che il suo metodo possa essere applicato anche all’epoca contemporanea? Ad esempio, si può ricostruire l’ambiente e lo stile culturale della Germania orientale a partire dai documenti della Stasi?
«Per l’appunto ho appena terminato un libro sulla censura che prende in esame, tra l’altro, proprio il caso della Germania Est nel periodo comunista. L’idea è di comprendere che cos’era in effetti la censura dal punto di vista operativo, analizzando gli interventi materiali e i cambiamenti apportati alle opere da autori, editori e autorità, ad esempio ricostruendo come gli stessi poeti cercavano di negoziare con la censura. Noi tendiamo ad averne uno stereotipo astratto, ma nella pratica la censura è fatta di negoziazione, di complicità, di andirivieni tra produttori e controllori».
Da un certo punto di vista, quindi, si potrebbe parlare dei censori come coautori delle opere in questione?
«Esattamente, è proprio questo il punto. Un esponente della censura tedesca scrive: “Su questo manoscritto ci ho lavorato più io dell’autore!”. Un’opera come un libro è sempre il risultato della collaborazione di autori, tipografi, editori, e in certi casi perfino di censori».