varie, 14 ottobre 2013
Tags : Janet Yellen
Biografia di Janet Yellen
Janet Yellen, nata a Brooklyn (New York) il 13 agosto 1946. Laurea in Economia nel 1967 alla Brown University (Rhode Island). Dottorato (Phd) a Yale (Connecticut) nel 1971. Insegna a Harvard, poi ha un incarico come consulente della Federal Reserve (Fed), quindi ottiene una cattedra a Berkeley (California). [1] Da metà degli anni Novanta consigliere economico di Bill Clinton. Oggi è vicepresidente della Fed. Mercoledì scorso, 9 ottobre, Obama l’ha nominata presidente della Federal Reserve, in sostituzione di Ben Bernanke. Entrerà in carica il 1° febbraio. Sua prima frase dopo la nomina: «Deve essere fatto di più per rafforzare la ripresa. Troppi americani sono ancora senza lavoro». [2]
Minuta, capelli bianchi a caschetto. «Una donnina molto piccola con un quoziente d’intelligenza molto grande». [3] Prima donna nella storia a guidare la Fed (che l’anno prossimo farà un secolo di vita). Democratica. Al vertice della Banca centrale americana non sedeva un democratico dai tempi di Paul Volcker (trent’anni fa).
«Era secchiona già da bambina. Quando si diplomò alla Fort Hamilton High School, nel 1963, era insieme direttore del giornale scolastico, The Pilot, e valedictorian, cioè miglior studente. Siccome la tradizione voleva che il direttore del Pilot intervistasse il valedictorian, Yellen intervistò Yellen, raccontando la passione per i viaggi, il pianoforte, il bridge, e la geologia: “Ho una raccolta di oltre 200 minerali”. Sul futuro era incerta tra l’antropologia, la geologia e l’economia, ma l’anno dopo la scelta era fatta: i numeri, messi al servizio delle scienze economiche, potevano salvare il mondo. O quanto meno aiutarlo a funzionare meglio». [4]
Tesi del dottorato con James Tobin, quello della tassa sulle transazioni finanziarie. Argomento: i costi della disoccupazione. Janet imparò «come i governi e le Banche centrali possono contribuire a ridurli, quei costi (gli appunti che Yellen prendeva alle lezioni di Tobin sono conosciuti come “Yellen notes”: erano talmente perfetti che sono diventati il manuale di testo non ufficiale di migliaia di studenti dopo di lei)». [5]
«Quando fu nominata nel board della Fed nel 1994, le fu detto che andare in mensa non era adeguato al suo status, ma lei se ne infischiò: “Mangiare lì con il mio staff è un buon modo per capire che cosa pensano le persone, che cosa hanno in testa”, spiegò. La verità è che in quella cafeteria aveva conosciuto, nel settembre del 1977, il suo futuro marito: fu amore a prima vista, nel giugno dell’anno successivo erano già sposati, lo sono ancora, anzi oggi sono la “power couple” dell’establishment economico americano e mondiale. Il signor Yellen è George Akerlof, premio Nobel per l’Economia nel 2001». [5]
«Gli anni più terribili per Yellen sono stati quelli a capo dei consiglieri economici di Bill Clinton, dal ’97 al ’99, anni di benessere ma di grande lotta politica. A dimostrazione dell’insofferenza, gli amici ricordano che, per sostenerla, Akerlof prese un anno sabbatico da Berkeley, lavò i piatti e curò il figlio Robert (che oggi insegna Economia) per starle vicino. Dimenticano che anche Yellen aveva rinunciato a un posto alla Fed per seguire il neo marito a Londra, come se una “power couple” tanto erudita non sapesse che, in economia come in amore, non c’è stabilità senza equità». [5]
Proverbiale intesa tra Yellen e Akerlof. Ad ogni intervista gli amici tirano fuori «le collezioni di francobolli e le vacanze: partono con una valigia piena di manuali d’economia e li studiano e li commentano ridendo in spiaggia». [5]
Lui più visionario, lei più vigorosa. Nessuno dei due si fida dei mercati. «George Akerlof, premio Nobel per l’Economia nel 2001, che nel 1970 scrisse un paper sulle conseguenze dell’asimmetria informativa: si chiama The market of lemons, dove i lemons sono le auto usate brutte, “i bidoni”, che finiscono per distruggere il mercato delle auto usate a causa delle informazioni differenti tra venditore e acquirente e del conseguente adattamento dei prezzi al ribasso (mi aspetto che arrivi un bidone, voglio pagare poco): generazioni di studenti d’economia si sono rovinate le notti al pensiero che, in assenza di un mercato perfetto, il male finisce per battere il bene». [5]
«Nella biografia preparata in occasione del Nobel, Akerlof ha scritto: “Non soltanto le nostre personalità s’accoppiavano alla perfezione, ma siamo sempre stati in perfetto accordo sulle questioni macroeconomiche. L’unica differenza è che lei crede nel libero commercio più di quanto ci creda io” (lei avrebbe poi detto che si trattava di una battuta)». [5]
Idea di Janet che un’inflazione al 2% faccia bene all’economia. Altra idea: le banche sono generalmente sottocapitalizzate e «i regolatori tendono ad intervenire sempre troppo tardi. Per questo vuole ridurre la leva finanziaria (leggi: indebitamento – ndr) delle banche americane e introdurre dei meccanismi automatici di intervento, per evitare una nuova crisi. La sua influenza sulla Fed si è già vista nell’innalzamento dei requisiti di capitale delle banche sistemiche al 6%, deciso lo scorso luglio». [6]
Problema adesso: come e quando prosciugare i mercati, invasi dalla liquidità messa in circolo da Bernanke per governare la crisi.
«La Banca centrale, rispetto alla moneta, ha due strade possibili: di stamparne poca e tenere tutti a stecchetto (strada europea voluta dalla Merkel e dalla Bundesbank) oppure di stamparne molta, e in questo caso Borsa e banche sono felici, ci sono soldi per fare impresa, le aziende assumono, insomma sembrerebbe un paradiso. Però il biglietto d’ingresso per vivere in questo paradiso può rivelarsi piuttosto salato: se il denaro è abbondante, i prezzi tendono a salire e i vantaggi del credito facile e dell’occupazione senza problemi possono essere facilmente neutralizzati dal caro-prezzi. L’inflazione stimola anche l’indebitamento, perché è meglio farsi prestare i soldi oggi, con tassi d’interesse più bassi, che domani quando per controllare il traffico di denaro le Banche centrali aumenteranno l’interesse da pagare su mutui, carte di credito e altri finanziamenti. Questo schemino le fa capire che non c’è una via sicura alla felicità finanziaria, e che ogni pasto prima o poi si paga». [7]
Per sostenere l’economia e tenere bassi i tassi d’interesse, la Fed compra ogni mese 85 miliardi di dollari di titoli del Tesoro. Smetterla con quest’immissione di droga è indispensabile, ma «la fine del Quantitative Easing può costare più del previsto. Secondo il Fmi, un ritiro degli stimoli monetari esistenti può costare fino a 2.300 miliardi di dollari». [8]
«Ma quanta liquidità c’è nell’universo finanziario mondiale? Troppa. Nell’agosto 2007 il bilancio della Fed aveva asset per circa 869 miliardi di dollari. Dopo il collasso di Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008, si passò rapidamente da 1.000 miliardi di dollari ai 2.074,205 miliardi registrati il 5 novembre 2008. L’ultima rilevazione della Fed, datata 2 ottobre scorso, vede asset per 3.747,387 miliardi di dollari. E a questi vanno aggiunti i programmi straordinari messi in campo da Banca centrale europea, Bank of England, Bank of Canada. Il tutto senza scordarsi della Bank of Japan, che tramite l’Abenomics raddoppierà la propria base monetaria, portandola da 135.000 miliardi di yen a 270.000 miliardi nel 2014, cioè da 1.430 miliardi di dollari a 2.860 miliardi. Tutti soldi che sono stati riversati sui mercati nel tentativo di contenere gli effetti del post-Lehman Brothers». [8]
«Il 63% delle riserve valutarie globali è rappresentato dai dollari statunitensi. Che siano i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) o i Mikt (Messico, Indonesia, Corea del Sud, Turchia), la sostanza non cambia. Le banche centrali di questi Paesi hanno un’esposizione significativa sul dollaro. Per esempio, una fetta considerevole dei mutui turchi è denominato in dollari. Ed è chiaro che la fine della politica espansiva potrebbe impattare anche su questo settore, a cascata». [8]
«L’obiettivo della Banca centrale è portare il tasso di disoccupazione dal 7,3 per cento odierno al 6,5, soglia decisiva per cominciare a ridurre gli stimoli ed eventualmente ad aumentare i tassi d’interesse. Le stime sull’ipotetico raggiungimento del target oscillano da fine 2014 a 2015 inoltrato». [9]
Note: [1] Il Post 9/10; [2] Anna Guaita, Il Messaggero 10/10; [3] Federico Rampini, la Repubblica 10/10; [4] Paolo Mastrolilli, La Stampa 10/10; [5] Paola Peduzzi, Il Foglio 10/10; [6] Luigi Zingales, Il Sole 24 Ore 10/10; [7] Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport 11/10; [8] Fabrizio Goria, Linkiesta 10/10; [9] Alberto Brambilla, Il Foglio 10/10; [9] Alberto Brambilla, Il Foglio 10/10.