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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

NEL PAESE DI ALICE


MARGARET ATWOOD, JOYCE CAROL OATES, ALICE MUNRO: CE L’HA FATTA LA MENO GIOVANE – GUAI A DIRE «LA PIÙ VECCHIA» – FRA LE TRE PERENNI CANDIDATE AL NOBEL PER LA LETTERATURA. Alice Munro, dunque, con i suoi candidi 82 anni, regala al Canada un premio dovuto, quasi necessario dopo una vita spesa a ritagliare vite altrui nell’origami intenso della sua narrativa. «Non ci pensavo proprio, sono terribilmente sorpresa», afferma, svegliata nel cuore della notte dalla notizia da parte di una delle figlie. Ma il mondo intero, nella sua limpida e quasi sempre dolorosa quotidianità, è passato attraverso le storie della Munro: il respiro di un universo minimo ma non minimalista, nella misura sempre circoscritta del racconto, se si esclude il romanzo – anche qui però strutturato su un legame tra più racconti – Lives of Girls and Woman del 1971. Un Nobel da short-stories, un riconoscimento che si spande nei larghi spazi di un Paese in cui natura, lavoro, sofferenza, isolamento e sentimenti sono diventati l’antologia ideale di un Novecento appartato, di provincia ma non provinciale, nel terreno aperto delle grandi sfide morali.
L’Ontario è la Macondo di Alice Munro, la regione ideale in cui l’uomo si confronta con la natura e – di conseguenza – con se stesso. A Clinton, nell’Ontario, vive tuttora l’autrice, nata a Wingham il 10 luglio 1931. Figlia di un agricoltore e di una insegnante, pubblica il suo primo racconto nel 1950, lavorando per mantenersi agli studi, anche se poi abbandona l’università nel 1951 per sposare James Munro. Lei era nata Laidlaw, ma mantenne sempre il cognome del marito, anche dopo il secondo matrimonio con Gerald Fremlin. Scrittrice non laureata, conquista la gloria sul campo fin dalla prima raccolta di storie. La dama delle ombre felici, del 1968, con cui vince il massimo premio e, il Governor General’s Award, che le verrà assegnato altre due volte.
La Munro descrive la quotidianità, anche quella più intima e all’apparenza banale, ma riesce comunque a cogliere di sorpresa il lettore con piccoli colpi di scena che smuovono la staticità di una qualunque storia di coppia, la nevrosi pacata di una solitudine, il silenzio della riflessione aperta. Minuscole, spesso invisibili follie si nascondono tra le pieghe di mali di vivere accettati come un’appartenenza quasi antropologica a un luogo, a una immensa, inarrivabile geografia. Sono frammenti di esperienza, spezzoni di realtà che confliggono con il gioco del destino, ma sanno trovare il loro punto di riferimento in un superiore disegno creativo, che spesso lascia i protagonisti attoniti, smarriti sulla soglia del nulla.
Alice Munro, madre di quattro figlie – una morta quindici giorni dopo la nascita – è soprattutto una psicanalista dell’animo umano, in grado di assoggettare i sentimenti alle esigenze di stratagemmi per sopravvivere. Il suo stile è straordinario nell’apparente colloquialità, riconoscibile ma non ripetitivo, tanto che si potrebbe definire la scrittrice come una grande affrescatrice di piccole tragedie private, in questa sorta di commedia umana «in progress» in cui ogni esordio di storia è una scena aperta su un qualsiasi momento di umanità spicciola. Dagli incipit più carveriani – spesso la Munro è stata poco felicemente accostata al pur grandissimo Ray Carver – partono infatti le schegge impazzite del destino, che conducono i personaggi oltre la soglia delle loro certezze, sul terreno minato del confronto, delle scelte e degli addii. Le vicende sono spesso lunghi flash-back che attraversano la geografia di intere esistenze, per concludersi nel momento esatto di un distacco, ma anche di una conferma.
Non c’è mai amarezza – neanche nella rappresentazione del dolore – nella narrativa di Alice Munro, solo la precisa, magica consapevolezza che esistere è un mestiere faticoso ancorché provvisorio e che una persona magari incontrata e amata per un solo giorno può determinare la concretezza di una vita felice, dove un volto scomparso diventa la misura del tempo, della memoria che procede in accordo con il perdurare dei sentimenti. Sono più di quindici, le ampie raccolte di storie della Munro, quasi tutte pubblicate in Italia da Einaudi con qualche parentesi presso e/o e La Tartaruga: storie dell’Ontario, potremmo definirle, oppure cronache da una semplice, primitiva normalità, anche quando l’autrice si spinge a rievocare la propria storia familiare, nel volume La vista da Castle Rock, del 2006, in cui traccia la vicenda dei suoi avi paterni, i Laidlaw, a partire da un antenato scozzese del XVII secolo, per arrivare a una specie di autobiografia dell’anima – a titolo coraggiosamente personale nei sei racconti che chiudono il libro.
Ciò che colpisce, più di tutto, è il senso del tempo, nelle storie di Alice Munro: presente e passato riescono a incrociarsi spesso come un gioco intricato che ha il respiro potenziale dei grandi affreschi romanzeschi, anche se sono i sussurri, i gesti, le stagioni e le memorie a compattare in poche pagine vite intere, che si rincorrono, si cercano e si perdono fino alla più umana e dolente resa dei conti. Racconti che valgono un Nobel, dunque, storie che sfiorano ogni più intimo sentimento, nostre – universali – rese spesso ancora più magiche e struggenti da un paesaggio ampio e selvaggio che è il teatro assoluto – inafferrabile – di tutte le più piccole, irrilevanti, ma determinanti variabili del destino.