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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

WELFARE L’OLANDA SI ARRENDE


WEESP. Per chi non ha più la forza di vivere la propria, anche le più incespicanti vite degli altri possono diventare uno spettacolo ipnotizzante. A distanza di sicurezza, però, fuori dalla «zona di disagio». Per questo i ponti sopraelevati di legno e vetro qui diventano i belvedere prediletti. Da dove una donna magrissima con una giacca a vento leggera e lo sguardo terreo fissa il lento brulicare di pazienti come lei. Che attraversano i giardini disegnati da Niek Roozen, celebrato artista botanico. O rientrano nei ventitré appartamenti arredati secondo uno dei sette stili di vita che accomuna i sei-sette abitanti di ogni lotto. Quello originario, almeno, prima che l’Alzheimer li rendesse pallidi come fantasmi di sé stessi. Niente è lasciato al caso a De Hogeweyk, un ospizio fatto a villaggio per l’accoglienza dei malati neurodegenerativi a meno di mezz’ora da Amsterdam, ribattezzato il Truman Show dei dementi senili. Perché anche la cassiera del ristorante, che fa finta di niente per infondere negli ospiti un’illusione di normalità, è un’infermiera in borghese. Non si tratta, per il possibile, di un posto triste. Diciotto dei 19 milioni di euro che è costato sono andati sul conto dello Stato. In Italia i 5000 euro al mese di retta se li potrebbe permettere un milionario. In Olanda tutti, dal momento che paga la previdenza. Almeno sino al discorso del re che ha osato sfidare l’ultimo tabù: l’intoccabilità del welfare.
Per la rituale apertura dell’anno parlamentare il nuovo monarca Willem-Alexander non ha esordito con frasi di circostanza. Leggendo il testo scritto dal primo ministro liberale Mark Rutte ha invece avvertito il suo popolo che «lo stato assistenziale del XX secolo è destinato a sparire» e al suo posto i cittadini devono prepararsi all’idea «di prendersi la responsabilità della propria vita e di quella delle persone che li circondano». Goodbye welfare, hello «società partecipativa», qualunque cosa ciò significhi. Che è un po’ come se gli scozzesi annunciassero solennemente di rinunciare al whisky. Ma al di là dell’enorme valore simbolico del cambio di stagione, in pratica che tempo ci si dovrà aspettare nei Paesi Bassi?
«Questa discussione sulla partecipazione, oggi ufficializzata al massimo grado, va avanti da anni» mi spiega il sociologo Cok Vrooman, in una stanza finestratissima dell’Istituto olandese per la ricerca sociale che sovrasta la stazione dell’Aia. Una «ricalibrazione del welfare» che ha moventi economici (la crisi) e morali (c’era chi se ne approfittava, magari dimostrandosi troppo schifiltoso, da disoccupato, di fronte a offerte di lavoro non entusiasmanti). Qualche ritocco è già stato apportato: «Gli studenti devono pagare un po’ di più per l’università e ci sono condizioni più stringenti per le borse di studio. Si è chiesto ai cittadini di chiudere meglio le proprie case, per prevenire furti. E di evitare gli stili di vita nocivi, come il fumo e l’alcol, che oltre al danno personale hanno un prezzo alto per la sanità pubblica». Dopo tanti diritti, un po’ di doveri, chiesti molto gentilmente. «Il welfare diventerà una coproduzione pubblico-privata» dice Vrooman, soddisfatto della definizione. È sempre lui però a mostrarmi un libro bianco in cui risulta chiaramente che gli olandesi sono ancora molto legati all’idea che lo Stato si prenda cura di una serie di fondamentali settori. Conclusione: «Gli effetti del cambiamento li sentiremo tra una decina d’anni».
Il nuovo film non andrà in onda domani, insomma. Però trascurare i sintomi potrebbe essere grave, avverte l’editorialista del quotidiano Nrc Bas Heijne, nel salotto del suo appartamento stipato di dischi di lirica che dà su un centralissimo canale di Amsterdam. «Se un concerto o uno spettacolo teatrale qui costava un quinto che in Italia non era per magia, ma per il fatto che lo Stato sussidiava l’arte. Quando l’anno scorso, in reazione a un debito pubblico cresciuto di un quarto dal 2008, i tagli hanno smantellato il sistema c’è stato un coro di applausi. Di gente che non si accorgeva che era solo l’antipasto di ciò che sarebbe venuto». Come nel pericoloso disinteresse dei tedeschi per l’escalation nazista che sembrava non riguardarli, nella poesiola dei Prima vennero. Pur senza drammatizzare, prosegue Heijne, c’è un governicchio di coalizione che sembra abbracciare acriticamente gli ideali neoliberisti. Una specie di ritorno al futuro, quando il futuro era la Thatcher. Con tanto di privatizzazioni dell’elettricità, dei telefoni e delle poste (con l’assurdo di sei diversi corrieri privati, con altrettanti orari di consegne, prezzi ai massimi e qualità ai minimi).
Segare era dunque inevitabile? I costi sono indubitabilmente assai alti. «Di sanità pubblica va via quasi un terzo del Pil (in Italia è sul 15 per cento)» ammette il sociologo Paul Schnabel, nella sua bella casetta in una zona residenziale di Utrecht, «di cui il 16 per cento nelle cure e il 14 nell’assistenza, soprattutto agli anziani», che è un po’ la specialità olandese, «e la spesa – per l’invecchiamento della popolazione, la dipendenza da farmaci internazionali e la necessità di manodopera qualificata – aumenta del 4-5 per cento all’anno». Qui, contestualizza il professore, non abbiamo come da voi tre generazioni di famiglie che abitano vicine e «le badanti sarebbero improponibili, gelosi come siamo della nostra autonomia anche dai figli». Quindi ci pensa lo Stato, ma lo Stato – come da noi, come ovunque – ha sempre meno soldi. E quindi sta valutando anche di ridurre le pantagrueliche indennità di disoccupazione da tre anni a uno.
Per il momento, però, più che la motosega è stata sguainata una lima per unghie. Se e’è uno cui non manca questa consapevolezza è lo scrittore Adriaan van Dis (pubblicato da Iperborea), rientrato in patria dopo otto anni vissuti in Francia. «Vede quella gente che aspetta un prosecco» dice indicando un vociante muro umano davanti al bancone dello scintillante Cafe de Jaren, «non è l’immagine di un Paese che soffre. A Parigi per strada non c’era neppure un decimo dei deambulatori che abbiamo qui, perché da noi li passa lo Stato. In comune con loro invece abbiamo l’incattivimento. Abbiamo tagliato con gusto i sussidi alla cultura, vista incomprensibilmente come uno spreco, in una sorta di odio verso noi stessi. L’incertezza genera paura, che a sua volta genera nemici. Tipo l’Europa. O gli stranieri. Chi vive nelle banlieues, per il 40 per cento disoccupato, ha un vocabolario di circa la metà di quelli che vivono in centro. Anche noi, dietro l’alibi della tolleranza, ci siamo disinteressati ai nostri immigrati. Spianando la strada a xenofobi come Geert Wilders il cui Partito della libertà sarebbe il primo se si votasse domani». Lo stesso, populista ma nient’affatto scemo, che – assieme a socialisti e pensionati – è saltato alla giugulare del premier all’indomani dell’annuncio, definendolo «un racconto dell’orrore».
Anche qui c’è un governo di larghe intese, con i socialdemocratici cloroformizzati nell’abbraccio neoliberista. Anche qui, dice il commentatore Heijne che frequenta l’Italia, il panorama politico si è spostato a destra. E la sinistra si fa togliere di bocca le parole d’ordine da formazioni impresentabili. Il generoso stato assistenziale sino a oggi ha rotto per un motivo semplice: qui chi guadagna sui 70 mila euro l’anno ne versa oltre metà in tasse. E pagano tutti. Perché sanno che l’amministrazione ha accesso ai conti correnti e comunque si consolano con la certezza che quei soldi blinderanno la loro vecchiaia, assistita dalle cure professionalmente affettuose di infermiere ben pasciute dallo Stato. Il professor Schnabel, per dire, ha una mamma di 96 anni con l’Alzheimer che sta in uno di questi ospizi. Anche quella di Heijne ci ha passato gli ultimi anni della sua vita. Nessun welfare potrà ridare loro la salute, ma garantirne il decoro sì. Si può discutere se sia un lusso o piuttosto uno degli indici più eloquenti del grado di civiltà di un Paese. Che, nel decidere dove risparmiare, due anni fa ha sforbiciato senza tentennamenti un quinto del budget della difesa. Sono scelte.
Esistono dieci criteri clinici per l’ammissione nelle case di cura. «Secondo le nuove disposizioni» mi spiega GertJan Waterink, che lavora per una società convenzionata che ne gestisce due nei suburbi di Amsterdam, «a breve accetteremo solo quelli dal livello 5 in su. Gli altri li assisteremo a casa loro». Si dispiace soprattutto che, con pazienti più gravi, gli ospizi diventeranno inevitabilmente più tristi. Per gli assistiti domiciliari non si preoccupa. A oggi era prevista addirittura una quota per chi dava una mano nelle pulizie domestiche. Forse sarà rivista. «Se avevo i soldi per pagarmela da sano» dissente Van Dis «non si capisce perché non dovrei farlo da malato. È un aiuto che dovrebbe valere solo per i poveri». Questo non è un Paese per falsi invalidi. E quasi nessuno traduce assistenza con assistenzialismo. Tuttavia del margine di correzione c’è. Heijne l’ha scritto in elzeviri e lo conferma: «Criticare è lecito, ma è molto diverso da abolire. Sento montare una retorica per cui lo Stato dovrebbe stare il più possibile fuori dai piedi, per permettere il rinascere di chissà quale nuova empatia all’interno della comunità. Un delirio». Il rapporto commissionato dal governo che il ricercatore Vrooman mi ha mostrato all’Aia si intitola Responsabilizzare i cittadini sotto la guida del governo. Suona molto «Stato morale», il sociologo lo sa e mi garantisce che non è quella l’intenzione: «Potrebbe venire fuori una nostra “terza via” tra pubblico e privato. Vogliamo solo spingere i cittadini a darsi più da fare, senza considerare scontato il tanto che ricevono». Il contributo degli ottuagenari, in media sui duecento euro quando la pensione di vecchiaia da sola è intorno ai mille, potrà essere aumentato. Giusto una limatina, per il momento.
Riccardo Staglianò