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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

UN’INDAGINE PER SCOPRIRE IL TRADIMENTO


«Chi trova un amore, perde due amici». Ecco che torna di nuovo sui numeri Robin Dunbar, il docente di antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford famoso per aver determinato la quantità massima di relazioni di amicizia che il cervello umano può mantenere: 150. Oggi Dunbar pubblica in Italia il suo ultimo saggio, Amore e tradimento: uno sguardo scientifico (Raffaello Cortina, pp. 300, euro 22), nel quale indaga su come le origini primordiali della coppia spieghino i nostri comportamenti di oggi, che vanno dal colpo di fulmine alle scenate di gelosia, apparentemente irrazionali, ma in realtà conformi alla volontà nascosta dell’evoluzione.
A vent’anni dal «numero di Dunbar», l’aritmetica delle relazioni umane è ancora una passione per lei...
«I nostri studi ci hanno suggerito che la maggior parte degli uomini ha 4-5 amici intimi, che si frequentano almeno una volta alla settimana. Le donne ne hanno uno in più, circa 5 o 6. Con i nuovi studi abbiamo anche notato che chi entra a far parte di una coppia si trova a frequentare, ma solo per pure ragioni di tempo, almeno due amici in meno rispetto a quando era single».
L’amore insomma varrebbe il doppio dell’amicizia?
«Così ha voluto il salto evolutivo che ha condotto i nostri lontani antenati a sviluppare un attaccamento particolare, romantico, verso un preciso individuo. Se cosi non fosse stato, oggi saremmo né più né meno come gli scimpanzé, che hanno molti amici e si accoppiano con grande promiscuità, ma non formano mai veri legami di coppia. E del resto si comportano come il 95 per cento dei mammiferi».
E per quale ragione i mammiferi sono cosi libertini?
«La lunga gestazione interna e i cambiamenti ormonali dell’allattamento rendono più vantaggioso per i maschi cercare nuove relazioni dopo aver ingravidato una femmina: così possono trasmettere un maggior numero dei propri geni».
A un certo punto però è comparso il primo romantico della storia: chi era?
«Abbiamo scoperto che il livello di poligamia nei primati è espresso dalla maggior lunghezza del quarto dito della mano rispetto al secondo dito. Si tratta di un effetto del testosterone assorbito alla nascita, più utile in un ambiente poligamo per la maggiore concorrenza maschile da affrontare. Noi abbiamo ancora, in effetti, l’anulare più lungo dell’indice, seppure la differenza sia decisamente minore rispetto alla mano dell’uomo di Neanderthal. Ipotizzo quindi che la monogamia comparve non più tardi di 200mila anni fa, quando – tra l’altro – la dimensione dei gruppi umani superò i cento membri e la pressione dei 20-25 maschi riproduttori sulle femmine diventò intollerabile. Fu questa situazione a creare il bisogno per la donna di un solo maschio che la difendesse da tutti gli altri».
Insomma il primo marito fu soprattutto una guardia del corpo...
«Di certo non un procacciatore di cibo, perché in tal senso l’uomo è sopravvalutato: le calorie portate in tavola dall’uomo cacciatore erano molto inferiori a quelle procurate dalla donna raccoglitrice. E poi l’uomo non è nemmeno necessario per l’accudimento dei figli: la coppia mamma-nonna si è dimostrata decisamente più efficiente in questo compito, e forse è anche per questo che nella nostra specie la menopausa arriva prima che negli altri primati: per affrancare la donna dalla necessità di riprodursi, e permetterle di accudire i nipoti. Il legame continuo con un uomo è servito alla donna non solo per difendere se stessa, ma anche e soprattutto per prevenire l’infanticidio da parte di altri uomini desiderosi di accoppiarsi. È così che ci siamo differenziati da animali come il leone, che quando ha una nuova compagna le uccide i cuccioli, figli di altri leoni, per mandarla di nuovo in estro ed avere dei figli suoi».
Converrà che tutto ciò non è molto romantico.
«L’amore romantico è un effetto collaterale di queste forti spinte evolutive. Perché si creasse un legame specifico anche se temporaneo, proprio come oggi tra un uomo e una donna, abbiamo dovuto aspettare di avere un cervello abbastanza evoluto da poter cogliere ciò che distingue la nostra anima gemella dagli altri, e per differenziare noi stessi dai nostri rivali. Inoltre dobbiamo entrare in sintonia col partner capendo la sua prospettiva, ci tocca ricordare ciò che il partner ama e ciò che non gradisce e sincronizzare il nostro comportamento con il suo. Tutte sfide che fanno crescere il cervello. Ci faccia caso: in quasi tutti gli animali le specie monogame hanno il cervello più voluminoso di specie simili, ma poligamo».
L’evoluzione ci fa e poi ci accoppia...
«Soprattutto ci spinge nella mischia: biologicamente non possiamo perdere tempo ad aspettare l’anima gemella. Così quando vediamo una persona attraente si riduce l’attività nelle aree cerebrali che ci rendono lucidi. È il “richiamo dell’evoluzione”: lo psicologo James Pennebaker ha trovato, ad esempio, che chi si trova in un locale tende a trovare più attraenti le stesse persone man mano che ci si avvicina all’ora di chiusura. Come se qualcosa a un certo punto ci dicesse: “Ma insomma, guardala meglio: è una bella ragazza, dopotutto. E muoviti!”».
E una volta conquistata la persona che ci piace, cosa cambia?
«Quella persona diventa unica. Al solo vederla, anche in foto, il nostro cervello rilascerà dopamina, neurotrasmettitore che ha un effetto simile a quello della cocaina, perché facilita l’attivazione dei centri cerebrali del piacere. E inebrianti cascate di endorfine ad ogni contatto fisico col partner. Inoltre da innamorati perdiamo interesse per i potenziali rivali del nostro amore: lo psicologo americano Jon Maner ha trovato che tendiamo a distogliere lo sguardo dagli altri quanto più questi altri sono attraenti e quindi una minaccia per la stabilità del nostro rapporto di coppia».
E allora perché a un certo punto l’incantesimo si spezza?
«I maschi dei mammiferi hanno sempre avuto la possibilità di scegliere tra l’essere un genitore amorevole o un implacabile Casanova. E anche l’Homo sapiens può scegliere tra questi due estremi. In uno studio del comportamento sessuale maschile dei canadesi, lo psicologo Daniel Perusse trovò che un terzo circa degli uomini era abitualmente promiscuo, anche se il 90 per cento degli uomini era sposato. Una spiegazione affascinante, ma discussa riguarda l’ormone dell’attaccamento maschile, la vasopressina: ha effetto soprattutto sugli uomini accoppiati da poco. Sugli accoppiati da molti anni ha invece lo stesso effetto blando che ha sugli scapoli. Il maschio lazzarone tipico dei mammiferi, insomma, è lì pronto ad affiorare».

Giuliano Aluffi