Giovanni Tizian, L’Espresso 11/10/2013, 11 ottobre 2013
SOPRAVVISSUTI E DANNATI
Lo scantinato umido, con le pareti scrostate e la puzza di urina, ospita cento persone. Stipate una accanto all’altra. I materassi stesi a terra, impregnati dell’acqua che gocciola dalle tubature. Tra tutti gli stanzoni trasformati in dormitori all’interno del palazzo Salaam, il sotterraneo è il più invivibile. Un tempo questa struttura a nove piani di vetro e cemento era la sede della seconda università romana di Tor Vergata. Dal 2006 è la casa della pace. Dove convivono, però, i sopravvissuti di una guerra. Quella di Lampedusa: 1.250 persone, tra rifugiati politici e richiedenti asilo. Sono eritrei, somali, etiopi e sudanesi. Tra di loro una cinquantina di bambini.
«Ci sentiamo dei sopravvissuti», racconta a "l’Espresso" Tolndne, cinquantenne eritreo da sei anni intrappolato nella periferia della capitale. Le immagini degli oltre 200 morti di Lampedusa hanno sconvolto gli abitanti del palazzo. «Li abbiamo ricordati con una fiaccolata. Potevamo essere noi le vittime». In tanti qui aspettano notizie dall’isola. L’unica mediatrice culturale, fino a qualche mese fa inquilina del Salaam, teme per suo cognato. Piange perché di lui ha perso ogni traccia, potrebbe essere una vittima del naufragio. I sopravvissuti del palazzo dei rifugiati aspettano con ansia notizie, particolari. Un dramma che si aggiunge alla disperazione quotidiana del vivere senza diritti in una città straniera.
Il palazzo di Tor Vergata è pieno. In otto anni la popolazione è cresciuta di cinque volte. E il caos regnerebbe sovrano se un gruppo di loro, i più anziani, i più responsabili, non si fosse organizzato in un comitato di controllo, composto da due rifugiati per ogni etnia. Registrano le entrate, offrono assistenza e coordinano le attività con l’associazione Cittadini del mondo, l’unica che lavora nel palazzo. Nella capitale non è il solo esempio di accoglienza autogestita. A qualche chilometro di distanza, sulla via Collatina, una struttura simile accoglie un migliaio di invisibili.
Nei palazzi occupati i migranti vivono alla giornata. C’è Bergette il calzolaio. Eritreo, rifugiato, ospite da cinque anni al Salaam. Le sue mani, raccontano alcuni volontari, producono scarpe che sono opere d’arte. Poi ci sono gli ambulanti. Ogni mattina partono alla guida di furgoni bianchi carichi di merce per allestire le bancarelle dei mercati per conto di padroni italiani. E, quando va bene, racimolano 30 euro a giornata. Altri lavorano, chi con contratto chi senza, per imprese di facchinaggio. Smistano le merci destinate alle case degli italiani. Al Salaam marginalità e sfruttamento si mescolano alla volontà di restare a galla con la sola regola dell’arrangiarsi. Ci sono generazioni cresciute dentro il palazzo. Coppie che negli otto anni di permanenza sono diventate famiglie con tre bambini. «Qui sono morti sogni e speranze», racconta il giovane rifugiato eritreo Tamsgin. Chi sopravvive agli sbarchi sulle coste siciliane spesso approda al Salaam. «È assurdo. Dovrebbero vivere in luoghi dove sono presenti presidi sanitari e frequentare corsi di italiano», osserva Donatella D’Angelo, medico volontario e responsabile dell’associazione Cittadini del mondo. È rimasta solo lei a visitare gli inquilini, altri suoi colleghi hanno mollato dopo un breve periodo.
Al Salaam c’è chi ha ottenuto i documenti di protezione internazionale e chi aspetta da tempo il riconoscimento. Lontani dal centro, dai servizi, dalla città. Un non luogo. «Molti di loro restano chiusi nelle loro stanze, al buio. Non mangiano per giorni e non hanno i soldi per pagarsi i biglietti dei mezzi pubblici, così accumulano multe su multe», racconta ancora D’Angelo. E passano per delinquenti, quando in realtà sono rifugiati da proteggere: «L’accoglienza è un diritto per chi chiede protezione internazionale, la carità non basta».
La situazione dei richiedenti asilo è un limbo dove il diritto di esistere è sospeso. Tanti di loro provano a lasciare l’Italia ripetutamente per raggiungere il Nord Europa. Tentativi che falliscono quando le polizie degli altri Stati riconoscono le impronte digitali e applicano il regolamento Dublino, rispendendoli qui in Italia. Le norme parlano chiaro: il migrante deve aspettare la risposta della commissione esaminatrice nel paese dove ha fatto domanda. E così passano i mesi, gli anni. E il tempo per ricongiungersi alla famiglia, che lo aspetta in un’altra nazione, si dilata all’infinito. La commissione che valuta le domande di asilo dovrebbe rispondere per legge entro 30 giorni. La realtà è però diversa: in Sicilia gli avvocati dei richiedenti denunciano tempi anche superiori all’anno. C’è una sola commissione per tutta la Sicilia orientale, quella di Siracusa. Ingolfata dopo la chiusura delle sottocommissioni di Mineo e Caltanissetta. Risultato? Tempi biblici e dispersione sul territorio europeo degli stranieri che hanno richiesto la protezione. E non è possibile puntare il dito contro l’eccessivo numero di domande da esaminare. I dati ufficiali del Consiglio italiano per i rifugiati posizionano l’Italia agli ultimi posti in Europa per richieste ricevute. Appena 15 mila richieste nel 2012 rispetto alle 28 mila del Belgio, alle 60 mila della Francia e alle 75 mila della Germania. Eppure nonostante l’afflusso limitato, la macchina burocratica di casa nostra va a rilento. Non sono neppure sufficienti i punti di accoglienza: il sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), costituito dalla rete degli enti locali che accedono a fondi pubblici del ministero dell’Interno, offre poche migliaia di posti. Una goccia nell’oceano rispetto ai quasi 80 mila tra rifugiati e richiedenti asilo.
«La follia tutta italiana è far vivere i rifugiati come clandestini», si scalda Bahar, che fa parte del comitato di controllo del condominio Salaam: «Negli altri paesi le cose funzionano in maniera diversa, ai rifugiati è garantita una sistemazione dignitosa». Il racconto di Bahar trova riscontro in numerose sentenze dei giudici tedeschi che gettano ombre pesanti sul sistema di accoglienza italiano. «Emergono dubbi fondati sulla capacità della Repubblica italiana di offrire sufficienti garanzie a chi chiede protezione internazionale». E non si tratta di casi isolati. Ma di almeno 40 sentenze di tribunali amministrativi tedeschi che hanno bloccato il respingimento in Italia degli stranieri.
«Dopo ogni sbarco aumentano i nuovi inquilini», spiega Bahar. «L’emergenza è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno muove un dito», denuncia D’Angelo:«Pochi i parlamentari che hanno varcato i cancelli del palazzo Salaam e solo due volte in otto anni. E prima di Ignazio Marino nessun sindaco di Roma era mai entrato». I sette piani dell’edificio ormai straripano di inquilini. E i servizi igienici non sono sufficienti. «L’80 per cento dei bagni e delle docce non funzionano nemmeno». Mancano i servizi sanitari minimi: dal centro dermatologico a un centro psichiatrico per le vittime delle torture. Un purgatorio che somiglia sempre più a un inferno dal quale i sopravvissuti alle traversate desiderano fuggire. In salvo dai naufragi, qui muoiono di una morte lenta.