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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

ALLARME TARDIVO PER UN PAESE SENZA STATO


Scatta, con ritardo, l’allarme internazionale per la Libia, un Paese senza Stato, che la nostra diplomazia descrive da settimane, se non da mesi, sull’orlo del baratro. Un primo ministro debole e contestato, senza una polizia e un esercito, privo dell’appoggio delle onnipotenti milizie dei thuwar, gli ex rivoluzionari, osteggiato dalla componente islamica del Parlamento collegata alle bande armate: Ali Zeidan era da tempo nel mirino e il sequestro lampo di ieri è la diretta conseguenza del raid Usa per rapire il qaedista Al-Libi.
Questa crisi ha un versante interno e uno internazionale. Il colpo di grazia a Zeidan è venuto proprio dagli Stati Uniti che lo avevano informato dell’operazione Al-Libi. La stessa ambasciatrice americana ha già lasciato, per ferie, il Paese, e forse non ci ritornerà ben sapendo che questo governo sarebbe stato messo con le spalle al muro dalle accuse di essere tacitamente connivente con Washington.
I thuwar hanno mandato il loro messaggio all’America e all’Europa dichiarandosi pronti a intervenire contro ogni violazione della sovranità «in nome della legittimità rivoluzionaria». Salta così anche la missione italiana di addestramento delle forze libiche, indispensabile per una concreta stabilizzazione.
La Libia, se esiste ancora, da sola non ce la fa ma nessuno ha l’autorità e la forza per imporre il disarmo delle milizie: arrivano a singhiozzo gas e petrolio mentre è impossibile assegnare le commesse e dare il via ai cantieri, anche quelli della famosa autostrada italiana Bengasi-Tripoli.
La liberazione di Zeidan ha avuto un risvolto paradossale che sottolinea il caos interno. I sequestratori che lo hanno prelevato all’Hotel Corinthia sono gli stessi miliziani ai quali il presidente del Congresso Abu Sahamein aveva affidato pochi giorni fa con un decreto la gestione dell’ordine pubblico. Questo spiega perché è stato proprio il berbero Abu Sahamein a mediare la sua liberazione. Così vanno le cose a Tripoli: il disordine è provocato dalle stesse persone che dovrebbero garantire la sicurezza.
Questo è un Paese che non ha più frontiere, né di terra né di mare: la missione europea e quella dell’Onu sono degli ectoplasmi. La Nato, che nel 2011 ha bombardato per mesi Gheddafi, dovrebbe assumersi ora qualche responsabilità diretta perché la sponda Sud scivola rapidamente fuori controllo. Altro che primavera araba e rivoluzioni tradite: qui affondano interi Stati mentre gli arsenali libici alimentano la guerriglia in Egitto, Mali, Algeria, Tunisia.
Un avviso ai naviganti: le spiagge della Tripolitania sono da tempo senza custodi perché le uniche due motovedette funzionanti restano ormeggiate a Bengasi che non ha nessuna intenzione di cederle al governo centrale di Tripoli. Dovremmo anche preoccuparci per come vengono trattate le popolazioni di colore in Libia: bersaglio di un razzismo diffuso e insidioso che riduce profughi e lavoratori stranieri in una sorta di schiavitù moderna. Ma dove sono oggi gli alfieri dell’intervento umanitario come Bernard Henry Levy? A casa, perché essendo ebreo a Tripoli non può mettere piede.