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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

DOVE RITORNA LA PENA DI MORTE


Come avviene dal 2003, anche quest’anno il 10 ottobre è la giornata mondiale contro la pena di morte. A quali risultati hanno portato questi dieci anni di impegno?
Senza dubbio sono stati fatti passi enormi e non solo negli ultimi dieci anni. Lo conferma l’ultimo rapporto di Amnesty International, che mostra come 140 Paesi (su 198) abbiano già abolito per legge o nei fatti la sentenza capitale. Tra questi, 97 non contemplano la pena di morte per nessun tipo di reato, neppure in caso di guerra. Solo pochi anni fa il quadro era ben diverso. Nel 1977, quando Amnesty lanciò la prima campagna internazionale, i Paesi abolizionisti erano 16: una netta minoranza. Oggi la minoranza è quella delle nazioni dove le esecuzioni continuano: 21, lo scorso anno. Purtroppo, però, negli ultimi tempi sono emersi anche dati preoccupanti.
Quali?
In alcuni Paesi la pena capitale pare tornata in auge. È il caso dell’Iraq, dove solo nell’ultima settimana sono state giustiziate 42 persone, compresa una donna, tutte condannate per atti di terrorismo. Quest’anno il numero delle esecuzioni decise da Baghdad ha già toccato quota 113 e non accenna a fermarsi. Colpa di uno scenario da guerra civile, che ha portato a quasi cinquemila morti da inizio anno.
Ci sono Paesi che avevano sospeso le esecuzioni e poi hanno cambiato idea?
Sì, è l’altro aspetto preoccupante del momento. Tra 2012 e 2013 si è tornati alla pena di morte in Paesi importanti come India, Giappone, Indonesia, Nigeria e Pakistan, dove c’era stata una sospensione. «Assistiamo a passi indietro da parte di nazioni che consideriamo o consideravamo pienamente democratiche», spiega Sergio D’Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino. «In Giappone, nel 2011 non c’erano state esecuzioni e invece si è tornati ad applicare la pena di morte a partire dallo scorso anno. In India la moratoria era durata ben otto anni, dal 2004 in poi, ma purtroppo si è interrotta verso la fine del 2012. Non si parla di decine di sentenze per fortuna, ma non è un bel segnale».
Dove si muore di più per mano dello Stato?
La pena di morte resta difficile da eliminare soprattutto in Asia. A guidare la classifica è la Cina, dove si stimano circa tremila persone giustiziate nel corso del 2012. La buona notizia è che anche lì – nonostante la materia sia segreto di Stato – le esecuzioni sono in netto calo, più che dimezzate rispetto al 2006. Dietro alla Cina c’è l’Iran, con almeno 580 pene capitali eseguite nel 2012, poi Iraq (129) e Arabia Saudita (79).
E gli Stati Uniti?
Sono la quinta nazione della lista, con 43 detenuti uccisi nel corso del 2012. Lì la pena capitale è competenza dei singoli Stati e 18 hanno già scelto di abolirla: ultimo il Maryland, la scorsa primavera. Nonostante i film sull’argomento, negli Usa la pena di morte non è mai stata una pratica generalizzata: oltre metà delle esecuzioni fatte dal 1976 riguardano infatti il 2% delle contee americane. Il trend continua e i 3.125 detenuti che si trovano attualmente nel braccio della morte vengono dal 20% delle contee.
Perché tutti questi Stati insistono a conservare la pena di morte?
In alcuni Paesi è ancora considerata un deterrente contro la violenza, ma le statistiche provano tutto il contrario. In India, per esempio, gli omicidi sono diminuiti del 23 per cento proprio durante il periodo di moratoria. Altrove, lo spauracchio della pena di morte è usato come strumento contro i dissidenti politici, o in altri casi per frenare il traffico di droga.
Come si può intervenire per convincere gli ultimi Paesi?
La pressione internazionale resta un elemento fondamentale e per questo ieri 42 ministri degli Esteri del Consiglio d’Europa, inclusa Emma Bonino, hanno firmato un appello congiunto per l’abolizione della pena di morte. «La giustizia che uccide non è giustizia», si legge nel documento. Sempre ieri, il Parlamento europeo – in seduta plenaria a Strasburgo – ha condannato in forma pubblica e ufficiale Cina, Arabia Saudita e Iraq.
Ma appelli e prese di posizione internazionali bastano?
«Sono utili e importanti - dice D’Elia - così come vitale è stato ottenere, nel 2007, la risoluzione dell’Onu per la moratoria internazionale. Ma c’è un altro rimedio che funziona: mettere ostacoli concreti all’esecuzione della pena di morte. Succede già con i farmaci per le iniezioni letali: molte case produttrici hanno rifiutato le ordinazioni da parte dei governi che applicano la pena di morte e questo ha messo in crisi il sistema in Vietnam e anche negli Stati Uniti. Allo stesso modo, bisogna ragionare sui contributi che l’Occidente elargisce a molti Paesi asiatici per supportare la lotta al narcotraffico. In alcune di queste nazioni è prevista la pena capitale proprio per i reati legati alla droga: rischiamo di finanziare le esecuzioni».