Marcello Sorgi, la Stampa 11/10/2013, 11 ottobre 2013
MACALUSO, CIÒ CHE IL PD NON HA IMPARATO DA TOGLIATTI
C’è stato un tempo, lunghissimo per la sinistra italiana, in cui gli anniversari erano occasione di confronto interno e spesso di svolte inattese. L’anno prossimo, 2014, ne cadono due che offrirebbero parecchi spunti di discussione, a volerli cogliere: i trent’anni dalla morte di Enrico Berlinguer e i cinquanta da quella di Palmiro Togliatti. Ma mentre per il primo è già al lavoro una task-force di storici, biografi e politici, a cominciare da Walter Veltroni che sta girando un documentario che promette molte novità, sul secondo è arrivato a sorpresa, con grande anticipo, in libreria, un agile e fortemente eretico pamphlet di Emanuele Macaluso. Che a bella posta offre una discutibile, e per la verità non sempre condivisibile, rilettura della biografia del Migliore, tutta in positivo anche se niente affatto apologetica («Comunisti e riformisti - Togliatti e la via italiana al socialismo», pagine 138, Serie bianca Feltrinelli, euro 14).
Dunque, non il Togliatti che torna da Mosca in Italia nel ’44 dopo aver concordato con Stalin parola per parola i contenuti dell’azione politica che farà del Pci un protagonista di tutta la prima fase della Prima Repubblica, dalla Costituente, alla rottura dei governi di unità nazionale nel ’47, al durissimo confronto con De Gasperi e la Dc nel ’48. E neppure quello che attenderà il rapporto Krusciov sui crimini staliniani per prendere con cautela le distanze dall’Urss. Né ancora quello che a partire dai primi Anni Sessanta scatenerà una terribile offensiva contro il Psi e i primi governi di centrosinistra. Macaluso, per cinquant’anni, fino al ’92, al vertice del partito, e mai iscritto al Pd, ha avuto modo di lavorare al fianco di Togliatti. Ma la sua ricostruzione non viaggia sul filo dei ricordi, piuttosto di una messe di documenti letti e ritagliati ad uso di una tesi che, partendo da un passato stretto nei confini del Novecento, si rivolge alla sinistra di oggi.
La rinomata «doppiezza» del Migliore diventa così il perno di un ragionamento che punta a cogliere l’altra metà del personaggio. Perché Togliatti, spiega Macaluso, fu certamente ambiguo, tardò e alla fine non volle rompere i suoi rapporti con Mosca. Ma seppe essere duro con l’ala interna del suo partito, a cominciare da Pietro Secchia, che più cercava di avvantaggiarsi dalla vicinanza con i dirigenti sovietici. Condivise con Stalin la terribile responsabilità di orrori e torture che riguardavano anche persone a lui vicine, come il cognato Paolo Robotti, fece finta di non accorgersi della nascita della Gladio rossa, l’organizzazione paramilitare che secondo lo storico Victor Zaslavski doveva tenersi pronta all’insurrezione in Italia, ma fu capace di reagire al tentativo del dittatore georgiano di richiamarlo in Russia. A giudizio di Macaluso Togliatti fece, insomma, il possibile e cercò di «salvare il salvabile»: convinto che una presa di distanza, impensabile in tutto il mondo comunista specie negli Anni Quaranta e Cinquanta, non avrebbe avuto solo conseguenze personali per lui, ma anche per la sopravvivenza del Pci.
Di qui il filo del racconto si snoda nel ventennio 1944-’64 segnato dalla lunga segreteria togliattiana, dall’approdo a Napoli, all’ingresso nel governo di unità nazionale come ministro Guardasigilli, alla sconfitta del Fronte popolare, agli alterni rapporti con Nenni e i «cugini» socialisti, alla morte in Unione Sovietica, preceduta dal famoso «Memoriale di Yalta» e dalla denuncia, quasi un testamento dei limiti del socialismo dell’Est. Una serie di eventi arcinoti, studiati e approfonditi nelle numerose biografie pubblicate dopo la scomparsa del Migliore, la prima e più famosa delle quali, firmata da Giorgio Bocca, doveva subito svelare i limiti e l’ambiguità di una figura esageratamente mitizzata dall’agiografia comunista. Bene: Macaluso ribalta una dopo l’altra le ricostruzioni affermatesi come verità storiche per proporre una lettura nuova, ancorché più vicina a quella tradizionale in voga nel vecchio Pci, del vecchio leader. Un uomo fermo nel tenere la barra risolutamente lontana da ogni tentazione estremistica, da un’articolazione delle lotte di massa che non mettesse in conto preventivamente i rischi e i costi sociali di contrapposizioni portate all’eccesso, da un livello di scontro con Dc e Psi che rischiasse di segnare la rottura dell’unità costituente, una responsabilità che sentiva sopra ogni altra. Sui limiti, sulle incertezze, sulle marce indietro del personaggio Togliatti, l’autore non fa sconti: riconosce l’errore del ’56 con l’acquiescenza all’invasione dell’Ungheria, l’incapacità di capire la portata del tentativo di colpo di Stato di Segni nel ’64, le reticenze, fino all’ultimo, su Stalin, il Pcus e l’Urss. Ma a qualsiasi costo salva il Togliatti italiano, rifondatore del partito, maestro di un’intera generazione, la stessa di Macaluso, in cui fu capace di scegliere con lucidità i suoi eredi: Longo e Berlinguer.
Tutto questo, conclude in chiave polemica, riguarda una sinistra che oggi non è in grado di fare i conti con la propria storia, e preferisce nasconderla o cancellarla. La sinistra che innalza come icone le immagini di Papa Giovanni e del cardinale Martini, mentre esclude Togliatti dal proprio Pantheon, e cerca nuove identità solo nella questione morale e nel giustizialismo. La sinistra incapace di riconoscersi pienamente nell’esperienza del socialismo europeo e alla fine di riflettere sulla saggezza di un vecchio proverbio cinese: «Chi prende l’acqua da un pozzo non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato».