Kamila Shamsie, la Repubblica 11/10/2013, 11 ottobre 2013
LA CONFESSIONE DI MALALA “UN PEZZO DI ME È MORTO MA LA MIA BATTAGLIA VA AVANTI”
MALALA Yousafzai si sente persa. «Nello Swat ho studiato nella stessa scuola per dieci anni e per tutti ero semplicemente Malala. Qui sono famosa, la gente mi vede come la ragazza che è stata ferita dai Taliban. Mi pare che la vera Malala sia andata altrove e non riesco più a trovarla». Siamo sedute al settimo piano della nuova biblioteca di Birmingham: le pareti di vetro offrono la veduta di una città avvolta nella foschia, un netto contrasto con il “paradiso”, come lo chiamano i pachistani, della valle dello Swat, con le alte montagne e i fiumi cristallini che Malala ricorda con malinconia.
Quella di questa ragazza dovrebbe essere una condizione disperatamente triste e tuttavia è difficile provare pena per lei, la sedicenne più famosa del mondo. In parte per i suoi modi composti, che anziché far pensare alla costruzione a tavolino di un personaggio pubblico tradiscono un’invidiabile sicurezza di sé. E in parte perché la conversazione è interrotta dalle sue frequenti risate.
Le risate di Malala esprimono emozioni diverse: autocommiserazione, quando le chiedo perché crede che i Taliban si sentano minacciati da lei; gioia quando racconta le chiacchierate via Skype con la sua migliore amica, Muniba; sarcasmo quando ricorda il comandante Taliban che la invitò ad iscriversi a una
madrasa.
E raggiungono la massima espressività mentre prende in giro il padre, che assiste all’intervista.
Malala ha imparato molto dai suoi genitori. Sua madre non ha mai avuto un’istruzione e la consapevolezza delle limitazioni subite ha fatto di lei una grande sostenitrice della figlia e di suo padre nella loro campagna per la scolarizzazione delle ragazze. Uno dei particolari più toccanti di “Io sono Malala”, la biografia scritta a quattro mani con la giornalista Christina Lamb, è che sua madre avrebbe dovuto iniziare a imparare a leggere e scrivere proprio il 9 ottobre 2012, giorno del suo attentato. La passione per le riforme di Malala deve chiaramente molto al desiderio di emulare il padre Ziauddin Yousafzai: alla luce di quanto accaduto alla figlia è difficile trattenersi dal domandare all’uomo se «non rimpiange di aver…?». Ma sarebbe una domanda crudele, e ingiusta.
È forse proprio a causa delle critiche rivolte a suo padre che Malala afferma in più di un’occasione nel libro che nessuno pensava che i Taliban avrebbero preso di mira una ragazzina: se un membro della famiglia poteva essere considerato a rischio, quello era Ziauddin Yousafzai.
Le informazioni sul presunto lavaggio di cervello compiuto dal padre fanno da sfondo ai commenti di Malala quando le chiedo se pensa mai all’uomo che quel giorno di ottobre dello scorso anno tentò di ucciderla e se sa spiegarsi come mai le sue mani tremassero, un dettaglio che le è stato riferito dalle ragazze che erano con lei nel pulmino: lei non ricorda nulla. «Era giovane, sulla ventina » risponde senza risentimento. «Potremmo chiamarlo un ragazzo. Ed è difficile tenere una pistola e uccidere qualcuno». Non ce l’ha con lui? «Gli unici che mi fanno infuriare sono i miei fratelli e mio padre».
Meditare sul valore della compassione è forse una risposta assolutamente sensata ai proiettili e alle invettive. Vedersi denigrata, però — e non solo dai Taliban — deve fare altrettanto male. Nel suo libro Malala racconta che in Pakistan la gente l’accusa di inseguire la fama e i lussi di un’esistenza all’estero. «I pachistani non riescono a dare fiducia - spiega - hanno avuto molti politici corrotti. E ci sono persone che fingono di parlare loro in nome dell’Islam ma sono impostori: “Malala non è musulmana, è al soldo dell’America”, dicono. Raccontano che sto con la Cia o con l’Isi [i servizi segreti pachistani]. Dicono lo stesso di tutti i politici, e io voglio proprio darmi alla politica». È una battuta ironica, ma è anche una dichiarazione d’intenti: Malala è davvero convinta che tornerà in Pakistan, «Inshallah, presto», mi dice.
Provo a capire come trova la vita nel Regno Unito: in una certa misura, è evidente, soffre uno shock culturale. Risponde che l’ambiente è diverso da tutto quello aveva conosciuto prima e che qui in Europa tutti danno l’istruzione per scontata; la scuola non è «una lampada di Aladino… la soglia di un mondo magico», come veniva considerata dalle ragazze dello Swat.
Per quanto possa essere insolito imbattersi in una sedicenne con una passione per le riforme e l’istruzione, non c’è dubbio che Malala sia assolutamente sincera, ma se davvero volete vederla illuminarsi, parlatele dell’unico argomento in grado di trasformare quasi ogni pachistano in un adolescente: il cricket. Uno sport che Malala segue attentamente in tv e gioca a sua volta. Quando vede che parlare di sport mi interessa, i suoi modi pacati si trasformano e passa a descrivere il suo stile di gioco (preferisce il ruolo di battitrice). È assolutamente frizzante e vivace e nessun’ombra dei Taliban o delle sue responsabilità si insinua nei ricordi di quando giocava a cricket sul tetto della sua casa, con le montagne che facevano da sfondo. Anziché assillarla con le domande, verrebbe voglia di vorrei portarla allo stadio.
Sapere che nessuno al mondo ha condiviso le sue stesse esperienze la fa sentire sola? Non mi riferisco solo all’attentato dei Taliban, ma anche all’attenzione che ne è seguita. Malala, per la prima e ultima volta, non capisce la mia domanda. Mi spiego meglio, e risponde: «Quando mi raccontano di Malala, la ragazza che è stata ferita dai Taliban, ho l’impressione che non si tratti di me. Non ricordo nemmeno di essere stata colpita. Anche la vita che conducevo nello Swat sembra appartenere a un film».
L’intervista si conclude quando la porta si apre e suo padre entra con un gruppo formato per lo più da uomini. Alla loro testa c’è Chaudhry Abdul Majeed, il primo ministro dello Stato indiano di Jammu e Kashmir. Dopo le foto, tutti si siedono e il primo ministro inizia a parlare. Sta ancora parlando quando mi giro per cogliere l’ultima immagine di Malala: siede in silenzio e ascolta, stoicamente. La ragazza che si entusiasmava per il cricket è scomparsa: al suo posto c’è Malala, la 16nne ferita dai Taliban.
(Copyright The Guardian — La Repubblica. Traduzione di Marzia Porta)