Livia Manera, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
«SONO INSICURA E FACILMENTE IMPRESSIONABILE MA NARRO LA VITA SENZA TRUCCHI»
Diceva Alice Munro in una rara intervista che ci aveva concesso nove anni fa (si può quasi dire che le sue interviste si contano sulle dita di una mano), che «quando cresci in un luogo dove non hai rivali, ti fai un’idea esagerata di quello che puoi arrivare a fare nella vita».
Può sembrare una frase arrogante anche da parte di una scrittrice che qualcosa di eccezionale lo ha veramente fatto nella vita, se oggi ha vinto il Nobel per la letteratura. Ma provate a immaginare il contesto in cui è cresciuta questa regina del racconto breve, che a ottantadue anni è la stella più brillante della letteratura canadese: una piccola fattoria in una zona abitata da prostitute e trafficanti illegali di alcolici, ai margini di un paese nello stato del Western Ontario. Una vita sociale inesistente. Una madre che cade malata di Parkinson a quarant’anni e deve essere accudita dalla figlia di dodici. Dei vicini più o meno bigotti (metodisti, protestanti, presbiteriani, anglicani). Una pessima scuola di campagna dove i maschi ti rendono la vita un inferno. E un’educazione fondata sul fatto che quando hai finito di lavare, stirare, cucinare, ramazzare e accudire la mamma inferma, se hai la pretesa di mostrarti intelligente, ti prendi un sacco di cinghiate da papà.
Lo racconta Alice Munro (pronuncia come Monroe) nel suo ultimo libro Dear Life che Einaudi pubblicherà l’anno prossimo, in quei quattro racconti finali che «non sono proprio storie… ma che sono le prime e ultime cose che ho da dire sulla mia vita». E che quindi lei stessa annuncia come pezzi autobiografici, rivelatori se non addirittura indiscreti, quando di fatto contengono ciò che della sua storia avevamo già capito leggendo tra le righe i racconti di tredici precedenti raccolte: l’allevamento di volpi e visoni del padre fallito all’epoca della Grande depressione; l’ambizione sociale della mamma maestra; lo shock della malattia; la sorellina minore che Alice vagheggia di strangolare nella culla; la voglia di scappare di casa. «Cose che se le avessi messe insieme in una fiction, sarebbero eccessive», scrive oggi Munro, contraddicendo l’opinione di tanti scrittori autobiografici per i quali la vita non basta, e la pagina rimane scialba se non le si aggiunge un po’ d’invenzione.
Di fatto, si può dire che Alice Munro sia riuscita a scappare di casa due volte: la prima, quando si è sposata giovanissima, ha avuto tre figlie, ha abbandonato l’università senza laurearsi e ha vissuto a Vancouver prima e Victoria poi, scrivendo come un altro grande del racconto, Raymond Carver, nelle pause di una vita domestica che al massimo permetteva di lavorare sulla misura della narrativa breve. E la seconda quando ha divorziato a quarant’anni e ha potuto dedicarsi veramente alla scrittura col sostegno del secondo marito, il geografo Gerald Fremlin, che le è rimasto accanto fino a quando è morto, pochi mesi fa.
«Cerchi di capirmi, mio marito e io abbiamo una regola: non permettere che la nostra vita e la nostra casa siano invase di qualcosa che sia il risultato del mio lavoro», ci aveva detto Alice Munro all’epoca della nostra intervista, per giustificare il fatto che, anche se aveva accettato di parlarci di sé e del libro di quel momento, In fuga , preferiva farlo al telefono. E quando le avevamo chiesto se vivere ai margini di un paese di tremila anime vicino al lago Huron non la faceva sentire isolata, aveva risposto: «Se vivessi in un posto più grande dove ci sono anche altri scrittori, non credo che li frequenterei. Ho una personalità piuttosto impressionabile, nel senso che mi faccio influenzare facilmente da persone con un carattere più forte. In più non sono particolarmente istruita, e il mio attaccamento alla scrittura è un po’ fragile. Se qualcuno dovesse dirmi che sono sulla strada sbagliata e me lo argomentasse in modo convincente, sentirei di dovere fare un passo indietro. Non di cambiare idea, ma di fare un passo indietro, in modo da ritrovare la mia sicurezza di scrittore». Ecco la forza di Alice Munro: quel non cambiare idea, ma puntare tutto sulla propria unicità fondata sull’isolamento. E cosa è scaturito da questa andare sommessamente contro le regole? Uno stile «che deve essere come acqua trasparente, e sincero, anche se uno scrittore non sarà mai sincero fino in fondo». E un’indagine emotiva «che mostri quanto complicate sono le cose, e sorprendenti, perché è così che io trovo la vita», dice Alice Munro.
«Voglio emozionare le persone con delle sorprese, ma non dei trucchi. Voglio che i lettori pensino: sì, la vita è così. Perché è la reazione che ho io davanti alla scrittura che amo di più. Una sensazione di meraviglioso sbalordimento. Non il sentimento di felicità che ti dà un libro scritto per suscitare felicità, ma una sensazione di gratitudine per avere visto la vita in modo così intenso, attraverso la scrittura».