Franco Cordelli, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
NOBEL ALLA CANADESE MUNRO MAESTRA DEL RACCONTO BREVE
Negli ultimi anni si intravvede una nuova logica nell’assegnazione del Nobel per la letteratura. Non più, o non solo, l’impegno civile; non necessariamente la provenienza linguistica, se non geografica; ma anche un’alternanza tra scrittori che tutto il mondo conosce e scrittori che in pochi (fortunati) di già apprezzano. Dopo un cinese, relativamente noto, Mo Yan, ecco una canadese, ecco Alice Munro. I riconoscimenti che le sono stati tributati nell’ultimo decennio sono del tutto condivisibili. Personalmente tendo però a pensare (così mi piace pensare) che questo premio le sia stato assegnato anche a nome delle tante scrittrici canadesi comparse nel nostro orizzonte culturale da almeno trent’anni. Penso a Margarete Laurence, a Jane Urquhart, a Marian Engel (il suo L’orso è un capolavoro del tardo ventesimo secolo), a Margaret Atwood, a Mavis Gallant, a Anne Michaels.
In che cosa Alice Munro è singolare, diversa dalle scrittrici appena nominate e da ogni altro? Come sempre, parlando di lei, si cita Cechov. Ma è quanto succede per chiunque scriva racconti. In realtà Cechov non c’entra niente. C’è una prima differenza che salta agli occhi: Cechov è per così dire eccentrico, fa come gli capita, come esige la materia che ha tra le mani: ogni suo racconto è lungo quanto lo deve essere. In Munro le cose stanno all’opposto: dal 1968, anno della prima raccolta, a Troppa felicità , che è del 2009, tutti i racconti hanno più o meno la stessa lunghezza. Munro è una scrittrice non solo metodica, ma che ha dentro una specie di metronomo. Il punto è: nella sua invariabilità, questo metronomo quali diverse oscillazioni ha registrato nel tempo?
Una quantità quasi spasmodica, misurando le sfumature (di paesaggio, di psicologia, di temperatura emotiva, di umore); poche o forse nessuna, misurando la sua materia da una certa distanza (descrizione di un itinerario spirituale all’interno sia della civiltà pre-industriale sia contemporanea, crescita del singolo, formazione e deterioramento dell’istituto familiare). Ho letto tre racconti di anni lontani tra loro. Il più bello è Maschi e femmine , contenuto nel primo libro, La danza delle ore felici . Vi si racconta come diventano adulti un fratello e una sorella in una famiglia di agricoltori. Lo diventano assistendo all’uccisione da parte del padre di un cavallo e di una cavalla. Quell’uccisione era prevista e necessaria, le reazioni di Laird e della sorella sono opposte, di consenso e di ribellione. In questo racconto (ma sto parlando della traduzione di Gina Maneri) m’è parso di cogliere un’eco hemingwayana: sembrava «un cavallo non ancora domato, mentre non era altro che un vecchio cavallo da tiro, una vecchia giumenta saura».
Le bambine restano è contenuto in Il sogno di mia madre del 1998. Vi si racconta di come una famiglia di Vancouver si disintegra per colpa del teatro. Pauline, una giovane mamma che al teatro non aveva mai pensato, è invitata a interpretare la parte della protagonista nell’Euridice di Anouilh. Tanto può il personaggio da in qualche modo riprodursi nella realtà: era incredibile a solo pensarlo, eppure Pauline si allontana, se ne va per sempre e le «bambine restano» con il padre, quel così domestico Orfeo.
Il terzo racconto, Buche profonde , fa parte di una raccolta, per ora l’ultima, in cui l’energia dell’autrice sembra affievolita. La tecnica è la stessa: prima o terza persona, procedimento compassato, quasi millimetrico, improvvisa apertura a raggiera su personaggi secondari o che si riveleranno inaspettatamente decisivi nello svolgimento dei fatti, e immediato rientro nel flusso principale del racconto. In Buche profonde la reazione del giovane Kent che, precipitato dall’alto di una roccia fu salvato dal padre geologo, è quasi prevedibile nella sua bizzarria. Il padre muore giovane, la madre Sally sembra accettare questo destino con circospezione, diventato adulto Kent sparisce. Avendo scoperto in televisione dov’è, quando Sally andrà a incontrarlo si troverà di fronte un uomo che ha dato l’addio alle false credenze, prime fra tutte gli affetti familiari.
E qui si torna, dopo il consueto effetto di straniamento, al punto di partenza non solo tematico. Anche a quello stilistico o, diciamo meglio, al tono costante di Munro, al tono della sua narrazione: che è appunto colloquiale, familiare all’estremo: un uomo e una donna, una donna sola, una donna e due bambini, sempre e solo persone comuni, quelle che per strada non degniamo d’uno sguardo – almeno quanto loro di quello sguardo non degnano noi. A quest’altezza sembra tuttavia che l’«economia emotiva del mondo», come Munro la chiama, ossia il confronto felicità/infelicità, si sia un po’ impoverita — che del familiare non vi sia l’intensità sotterranea di prima, vi sia semmai una maniera.