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 2013  ottobre 11 Venerdì calendario

MISTRAL, LA COMPAGNIA DEI PORTALETTERE MA CHI PAGHERÀ IL CONTO FINALE?


Un paio d’anni fa si sono comprati perfino una ex banca statale che era stata privatizzata: il Mediocredito centrale, ricordate? Tempo addietro, per tenersi in esercizio, si erano fatte la loro bella compagnia telefonica. E ora le Poste sono pronte a mettere il loro sigillo anche sull’Alitalia. I disfattisti che già si preparano a mettere in croce Massimo Sarmi, sappiano che non c’è migliore esperto nel ramo. Non hanno forse le Poste una compagnia aerea già pronta all’uso, magari da mettere insieme alla compagnia di bandiera, tanto per seguire lo schema già sperimentato con Air One? Si chiama Mistral Air e per un po’ ha avuto anche un illustrissimo presidente nella persona dell’ex deputato di Forza Italia, ex dirigente di Publitalia, ex proconsole di Silvio Berlusconi in Campania, ex sottosegretario ed ex viceministro Antonio Martusciello. Era di passaggio: ora è al Garante delle comunicazioni. Di notte quelli della Mistral trasportano lettere e pacchi, di giorni portano passeggeri. Lourdes, Fatima, Czestochowa, Mostar, perfino Mosca… Le Poste l’hanno comprata per nove milioni dalla Tnt Traco, che a sua volta l’aveva acquistata dall’attore Carlo Pedersoli, al secolo Bud Spencer. Fu uno degli ultimi atti postali di Corrado Passera prima di levare le tende e trasferirsi a Intesa. Proprio lui, che sei anni più tardi, dal ponte di comando di quella banca, avrebbe pilotato l’operazione «patrioti». Disperato e fallimentare tentativo di salvare l’Alitalia mettendo insieme una assurda cordata. La quale però si è rivelata il paradigma perfetto di una certa nostra classe imprenditoriale. E in definitiva, del Paese che siamo.
Emilio Riva, per esempio: di lui tutto si può dire tranne che gli manchi il fiuto per gli affari. Soprattutto quelli con lo Stato. Nel 1995 compra dall’Iri l’ex Italsider di Taranto a un prezzo di 1.640 miliardi di lire, l’equivalente attuale di un miliardo 230 milioni di euro. Sembra un affarone per l’Erario, che in cinque anni ci aveva rimesso 5.300 miliardi. Ma è un affarone anche per lui. Rende come uno spericolato investimento finanziario: in media il 13 per cento netto l’anno, senza considerare le partite straordinarie. In diciassette anni l’Ilva produce profitti netti pari a 2,7 miliardi di euro. L’investimento iniziale si è quindi ripagato più di 2 volte, e senza considerare altre voci collaterali. Come i giochi finanziari lussemburghesi e i proventi delle cessioni. Un caso? La vendita della Finsider International, che importava per gli altoforni ottimo carbone dalle società minerarie cui partecipava in paesi come l’India, alla giapponese Mitsui e da questa rivenduta anni dopo alla indiana Ventana resources per quasi un miliardo di dollari. Operazione, sostengono alcuni esperti, che avrebbe contribuito a innescare la bomba ambientale deflagrata con l’inchiesta della magistratura sfociata nell’arresto di manager e azionisti del gruppo e il successivo commissariamento affidato a Enrico Bondi. Con il risultato che oggi stiamo qui a chiederci che ne sarà di Taranto, e se per caso non sarà proprio l’Ilva la nostra nuova Alitalia. Perché i destini delle due grandi aziende appartenute all’Iri adesso si incrociano imprevedibilmente.
Della compagnia di bandiera nuovamente morente il re dell’acciaio ha il 10,6 per cento, una delle quote più rilevanti. Vale 71 milioni di euro: somma pari ad appena il 18,8% degli utili netti che l’Ilva fece nel 2008, anno in cui nacque la Cai di Roberto Colaninno. Si poteva mai rifiutare una simile inezia per difendere l’italianità della compagnia aerea? Tanto più dopo che il Cavaliere aveva vinto in quel modo le elezioni, stracciando il centrosinistra? Pazienza se con il trasporto aereo l’acciaio c’entra come i cavoli a merenda: per quasi tutti i suoi compagni di avventura il coinvolgimento nella vicenda aveva avuto motivazioni tutt’altro che industriali.
Escludiamo ovviamente l’Air France, maggiore socio con il 25 per cento. E pensare che la cordata era stata messa in piedi per soffiargli la compagnia italiana su cui aveva già messo le mani: invece è diventata il principale azionista, praticamente gratis, e ora è sulla riva ad aspettare il cadavere che passa. Escludiamo anche il costruttore Carlo Toto, che ha conferito all’Alitalia patriottica la sua Air One. Gli altri? C’è la Vitrociset, titolare di un misero 1,3 per cento, che due anni prima aveva venduto per 108 milioni di euro all’Enav del Tesoro il ramo d’azienda dei radar per il controllo aereo. C’è Davide Maccagnani, che ha in tasca un altrettanto misero 1,4 per cento: era responsabile della Fiat Avio, poi si è messo a fabbricare munizioni e spolette, quindi è planato sull’immobilare. C’è Atlantia, proprietaria del gruppo Autostrade. C’è la Finanziaria di partecipazioni e investimenti di un altro concessionario autostradale pubblico (il gruppo Gavio), con la singolare presenza nella compagine azionaria del Comune e della Provincia dell’Aquila. C’è l’Acqua Marcia di Francesco Bellavista Caltagirone, ripiombato dopo trent’anni nei guai giudiziari per il porto turistico di Fiumicino: a marzo 2013 le Fiamme Gialle gli hanno sequestrato beni per 145 milioni. C’è la Fondiaria, appartenuta fino a qualche mese fa ai Ligresti, travolti dal crac finanziario e dalle inchieste della procura torinese. C’è la famiglia del deputato pidiellino Antonio Angelucci, l’ex portantino ora imperatore delle cliniche convenzionate con la sanità pubblica: anche il suo gruppo imprenditoriale è impegnato a fronteggiare iniziative dei giudici. C’è la ex banca di Passera. C’è Loris Fontana, massimo produttore di bulloneria... E poi la Pirelli di Marco Tronchetti Provera. La ditta di Cosimo e Gaetano Carbonelli D’Angelo, importanti imprenditori del settore biancheria con il marchio Kisené. I grossisti di frutta Orsero. Una società del gruppo Intek: private equity, energie rinnovabili, rame… La Immsi di Roberto Colaninno, nella quale troviamo anche suo figlio Matteo, deputato del Pd. La Aura holding della famiglia Traglio: gioielli e altro. Non manca la ex presidente della Confindustria Emma Marcegaglia. Suo malgrado: da quattro anni non vede l’ora di mollare. Forse questa è la volta buona. Per passare magari il testimone a Sarmi. Perché la giostra non si deve fermare mai, e adesso riparte con lo Stato azionista.