Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
«LO SPRECO MODERNO CHE SVILISCE LA PAROLACCIA»
L’insulto non è una novità. Ha una tradizione illustre non solo letteraria. Centinaia di processi due-trecenteschi raccontano di ingiurie indicibili: per esempio «maledetta la potta che ti cacò» è uno dei migliori fiori medievali dell’improperio creativo. Mescola coprolalia, oltraggio alla sessualità e alla famiglia. Tradotto: sia maledetta la vulva che ti mise al mondo. Lo ricorda Francesco Sabatini, linguista, lessicografo, filologo e presidente onorario dell’Accademia della Crusca. Potrebbe farne tesoro la corte dei miracoli che frequenta i talk show delle televisioni pubbliche e private. «La violenza verbale — dice Sabatini — è un fenomeno antichissimo, che sostituisce il ragionamento». Attenzione, però. Bisogna distinguere tra l’ingiuria (tipo: sei un ladro, un delinquente, un assassino, un imbroglione), che finisce per essere materia della giustizia, e la parolaccia, che pertiene al costume sociale. «Con i mezzi di comunicazione di massa, il pugno verbale diventa un modello per un pubblico indistinto, cioè per milioni di persone. Dunque finisce per intaccare il costume, cioè una importante dimensione del comportamento collettivo».
Non si tratta di difendere moralisticamente una forma di galateo o di rispetto pudico, ma di salvaguardare l’efficacia del linguaggio. L’uso e l’abuso del turpiloquio richiama in genere aree cosiddette extratestuali che hanno valori forti: le funzioni biologiche, il sesso, la famiglia, la religione, le divinità. «La volgarità verbale e l’offesa sono chiaramente un segno di debolezza e di sopraffazione di colui il quale le pronuncia: come se si ammettesse di non avere più argomenti razionali da far valere. E poi in fondo è uno spreco, perché la parolaccia, adoperata opportunamente, potrebbe anche avere la funzione di strattonare l’interlocutore o di creare effetti espressivi: si sa che Dante, nella Commedia , ne usa diverse. E Leopardi spesso e volentieri infarcisce le sue lettere di male parole».
Se da una parte l’eccesso di improperi consuma il lessico, d’altra parte logora il suo portatore (generalmente insano). «Lo stato di rissa continua in televisione non è una lite dal salumaio, perché rende normale acqua fresca la parolaccia nei contesti più diversi. L’aspetto nuovo non è la trivialità, ma il mezzo che la trasmette e che crea conseguenze a valanga nei destinatari. Sul piano collettivo, la diffusione della parolaccia denota un’impotenza di ragionamento rispetto ai fatti politici e sociali: si potrebbe dire che siamo un popolo debole che si lascia andare alla disperazione anche verbale. È un indice di malfunzionamento della società, come se si trattasse della sanità o dei trasporti: mette a rischio l’equilibrio sociale». Fragilità e prepotenza insieme, dunque. Sabatini ricorda che persino la Cassazione, sulle ingiurie, ha abbassato l’asticella di tolleranza, considerando come una critica del tutto irrilevante in ambito penale il «buffone» rivolto a un premier. «Non interviene più la giustizia, ma la morale, nel senso che semmai si squalifica da sé quello che ne ha fatto uso, mentre colui il quale ha subìto l’offesa non ne ha nessun danno se reagisce con equilibrio».
Può essere una parziale consolazione l’ipotesi che di questo passo, la coprolalia, il parlare osceno, la denigrazione possano essere ingurgitate dal discorso comune, come è accaduto in passato per numerose parole «proibite» la cui trasgressività è stata del tutto depotenziata da un uso eccessivo e fuori luogo. «Il vocabolo “chiasso” — osserva Sabatini — significava in origine stradina dei postriboli: oggi lo dice anche la madre superiora». E «casino», che significava bordello, si avvia verso lo stesso destino. E di fronte a «bischero», l’insulto toscano che un tempo evocava il membro maschile, nessuno oserebbe scandalizzarsi. «Va detto che in italiano le parolacce pullulano anche per l’enorme risorsa dei dialetti: si pensi al siciliano “minchia” o al genovese “belìn”: laddove ci sono maggiori squilibri socioculturali il turpiloquio abbonda. D’altra parte, si sa che i dialetti non sono lingue argomentative, essendo povere di lessico e di sintassi...». Che l’italiano in uso oggi sia già ridotto a un dialetto? È un’altra ipotesi da verificare.