Francesco Alberti, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
FRANZONI LIBERA DI GIORNO PER LAVORARE
DAL NOSTRO INVIATO BOLOGNA — Un’auto davanti al carcere della Dozza. Lunedì scorso, poco prima delle 7. Il profilo un po’ intimidito di Annamaria Franzoni, 44 anni, prende forma sulla soglia del portone nell’umidità autunnale del mattino. Raccontano di un attimo di incertezza, quasi uno sbandamento: forse la luce, forse l’orizzonte improvvisamente dilatato. Poi via, dentro l’auto. Verso qualcosa che non è ancora libertà, ma un piccolo grande passo verso quel traguardo chiamato normalità. Un lavoro esterno, lontano anche se per poche ore dalla cella che da 4 anni divide con una donna musulmana divenuta sua amica. Una manciata di ore al giorno in una cooperativa sociale che si chiama «Siamo qua» ed è specializzata in lavori di piccola sartoria.
Ad Annamaria le borse sono sempre piaciute, anche quando era libera. In carcere ha imparato le prime tecniche, seguendo un progetto chiamato «Gomito a gomito» rivolto alle detenute della sezione femminile. Ora ha la possibilità di lavorare in un vero e proprio laboratorio. Don Giovanni Nicolini, dossettiano da sempre impegnato sulla frontiera della sofferenza, è il parroco di Sant’Antonio alla Dozza nei cui locali è ospitata la coop. Ha conosciuto in carcere la donna di Cogne, l’ha seguita a distanza, l’ha vista cambiare negli anni e ora al Corriere di Bologna non nasconde la sua soddisfazione: «Annamaria — afferma — è una persona che porta il peso di una vicenda molto triste. Ho una buona impressione di lei, mi ha sempre dato l’idea di una donna che guarda al futuro e soprattutto che vuole un futuro».
Un futuro che non è affatto dietro l’angolo. Sono trascorsi 11 anni da quel 30 gennaio 2002 in cui il piccolo Samuele, 3 anni, venne ritrovato massacrato nella camera da letto della grande baita di Montroz, a Cogne. Annamaria, che si è sempre dichiarata innocente, «vittima di un grande errore giudiziario», venne condannata nel 2008 in via definitiva dalla Cassazione a 16 anni di carcere, caso mediatico senza precedenti e caso giudiziario che divise più di una coscienza. L’ultima (e unica) volta che la donna di Cogne ha messo piede fuori dal carcere della Dozza era il 30 agosto 2010: quel giorno, stretta tra i due figli (Davide e Gioele, 18 e 10 anni, poco dietro il marito Stefano Lorenzi) e guardata a vista dagli agenti della penitenziaria, le venne concesso di partecipare ai funerali del suocero, Mario Lorenzi.
Ora, Annamaria la sarta, ha un’opportunità. Ma guai a sgarrare. Nel laboratorio coop le hanno assegnato il turno di mattina (7.30-12.30). Nessuno può avvicinare la detenuta durante il lavoro. E ogni spostamento è pianificato: un’auto la preleva dalla Dozza e la riporta a fine lavoro. Dicono sia contenta. E che la sua specialità siano borsette variopinte di pelle e tela, destinate ai mercatini. Attorno a lei, dalla famiglia così come dal fronte dei legali, un muro di silenzio. «Non confermiamo e non smentiamo nulla» ha tagliato corto ieri l’avvocatessa Paola Savio, cementando una linea di condotta tracciata dalla stessa Franzoni prima di entrare in carcere: «Vogliamo essere dimenticati» disse. La sua vera battaglia è un’altra: recuperare il rapporto con i figli. Nel luglio 2012 chiese di poter trascorrere 3 giorni al mese in famiglia. Ma la Cassazione rispose che per i permessi bisogna aver scontato almeno metà della pena. Due mesi dopo, i legali della donna chiesero la detenzione domiciliare. E fu un altro no.