Fabrizio Massaro, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
DA UNICREDIT A EDF, CHI CONTROLLA LE QUOTE LIBICHE?
«Gli affari della Libia? Di fatto sono congelati, la situazione è troppo complicata, ogni giorno si rischia la vita negli uffici. Hanno altro cui pensare che alle partecipazioni. Io non vado a Tripoli da fine agosto: troppo pericoloso...». Per come lo descrive un importante advisor che ha stretti legami con il nuovo governo libico, il quadro è quello di un Paese fermo, che siede ancora su circa 60 miliardi di dollari di investimenti — senza considerare le immense riserve petrolifere — ma non riesce a gestirli. Così, per esempio, non sorprende che in Unicredit — dove fino a gennaio 2012 i libici erano i primi azionisti con il 7,6% diviso tra la Central bank of Libya e il fondo sovrano Libyan investment authority (Lia) e ancora adesso sono soci forti con il 4% — è parecchio che non si facciano sentire. E dire che fino a due anni fa esprimevano addirittura un vicepresidente nella figura di Omar Farhat Bengdara, allora governatore della Banca centrale. Allo stesso modo restano in piedi, ma senza una linea sicura, altre partecipazioni: dai gruppi americani General Electric e At&t alla francese Edf, alle tedesche Siemens e Allianz, all’inglese Pearsons (editore del Financial Times) per arrivare in Italia a Finmeccanica (2%), Eni (0,58%), Juventus (gestite dal Lia o dalla holding Lafico, lo storico socio della Fiat).
Alla comunità degli affari mancano un quadro chiaro delle strategie e l’interlocutore. Il regime politico del post Gheddafi aveva fatto leva in un primo tempo sugli «espatriati», cioè su quella fetta di classe dirigente libica che aveva fatto studi e carriera all’estero e poteva portare a Tripoli nuove connessioni e nuove esperienze. Un esempio era stata, nell’aprile 2012, la nomina a capo del fondo Lia di un docente poco più che quarantenne della Nottingham business school, Mohsen Derregia. In meno di un anno il rapporto con il primo ministro Ali Zeidan si è deteriorato tanto che Derregia è stato costretto a lasciare. Chi conosce le storie libiche spiega che lo scontro tra le fazioni sia stato determinato anche dall’azione di verifica dei conti avviata dal professore esperto di contabilità, che avrebbe evidenziato sospetti di corruzione che coinvolgevano personaggi ancora forti in Libia nonostante il cambio di regime. Sembra che lo stallo nelle istituzioni libiche stia condizionando anche lo sviluppo delle cause legali che Derregia aveva annunciato di avere allo studio contro Goldman Sachs (e sembra anche Société Générale) per le perdite che il Lia avrebbe sofferto in prodotti strutturati, circa 1,7 miliardi di dollari: mancherebbero ormai circa sei mesi alla prescrizione delle cause civili negli Stati Uniti.
Ora, dopo mesi di stallo alla guida del Lia, a fine luglio si è insediato un banchiere di lungo corso, Abdulmagid Breish, già a capo dell’Arab Banking Corporation (Abc), l’istituto libico del Bahrein. In bilico è anche il vertice della Banca centrale. L’attuale governatore Saddeq Omar Elkabber è in discussione: a fine luglio è stato addirittura pubblicato un annuncio online per le candidature al ruolo di numero uno della Central Bank of Libya, e sono arrivate al Congresso nazionale ben trenta candidature.
È naturalmente dal petrolio che arriva la grande ricchezza dei fondi sovrani libici. Ma lo sfruttamento di quelle risorse è molto a rischio. Uno che quell’ambiente lo conosce bene, l’amministratore delegato dell’Eni, lo ha descritto così appena lunedì scorso: «La Libia è il grande problema (dell’Eni, ndr ): arriva da quarant’anni di dittatura e Gheddafi ha distrutto tutte le istituzioni. Prima che la Libia riesca a ricostruire credo che ci voglia tempo. Ma i libici sono una popolazione pacifica e sono ottimista. Non credo che chiuderanno i pozzi che possiedono e troveranno il modo per riuscire a sfruttare le loro risorse». I numeri sono impietosi: dai 270 mila barili di petrolio al giorno del dopo Gheddafi, la produzione dell’Eni è scesa a meno di 60 mila barili.