Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 11/10/2013, 11 ottobre 2013
SEQUESTRO-LAMPO DEL PREMIER LA LIBIA RIPIOMBA NEL CAOS
Il rapimento lampo del primo ministro libico Ali Zeidan, ieri, è un segnale del caos assoluto che regna a Tripoli. Preso alle due e trenta di notte e liberato alle undici di mattina in circostanze ancora confuse, la sua credibilità politica ne è uscita distrutta. Secondo i circoli diplomatici occidentali in Libia, potrebbe anche dimettersi nei prossimi giorni, magari durante la festa tradizionale musulmana del Sacrificio che inizia domenica.
È buio profondo nel cuore della capitale, Ali Zeidan sta lavorando nella sua camera quando un centinaio di uomini armati fanno irruzione nell’atrio decorato di marmi italiani dell’Hotel Corinthia. Affrontano le numerose e ben equipaggiate guardie del corpo al servizio del premier libico, che dalla sua nomina nell’ottobre 2012 ha posto la propria residenza in questo resort super lusso voluto dai figli del colonnello Gheddafi meno di otto anni orsono. Pure, nessuno spara. Il blitz non fa vittime. In un primo tempo si pensa che i rapitori vadano cercati tra i gruppi islamici filo-Qaeda furiosi per il rapimento del loro leader, Anas al-Libi, il 5 ottobre per mano di un commando americano che lo accusa di aver organizzato gli attentati contro le ambasciate Usa in Africa alla fine degli anni Novanta. Ma, poco dopo, emerge una realtà più complessa. I rapitori sono uomini scelti della «Sala operativa dei rivoluzionari della Libia», un cartello di milizie islamiche (ma non qaediste) guidate da Shabban Massud Hadia, noto combattente due anni fa, che oggi gode della fiducia dei dirigenti del ministero degli Interni. Il loro ruolo è cresciuto per fare fronte all’anarchia tra le milizie, specie quelle sempre più arroganti di Bengasi, Zintan e Misurata. Sono ormai oltre 1.500 a frantumare ulteriormente la realtà tribale da nord a sud, da est a ovest. In risposta alla mancanza di un solido esercito nazionale, i circoli di governo fanno ricorso a loro per cercare di garantire almeno la sicurezza della capitale.
Ma anche tra questo cartello di milizie relativamente più «lealiste» stanno proliferando frustrazione e rabbia. A tanti non piacciono le evidenti simpatie filo-occidentali del premier. Le sue recenti richieste di aiuto militare a Stati Uniti, Francia e Inghilterra hanno causato violenti malumori. A ciò si aggiungono i tagli di luce ed acqua. Il Paese è impoverito, destabilizzato, prostrato, deluso. Spaventa la crisi economica dovuta soprattutto al crollo nell’estrazione energetica e nei suoi export. L’esportazione di gas (quasi tutto all’Italia) è scesa del 50 per cento dalla primavera. E non va meglio con il petrolio: dal milione e 700mila di barili esportati un anno fa (di cui un terzo all’Eni) si era scesi a 200.000 in luglio. Ora si è risaliti a 600.000 (di cui 200.000 all’Eni). Relativamente meglio, ma comunque un terzo dell’anno scorso. Le conseguenze sono gravissime: l’economia nazionale in soli tre mesi avrebbe perso entrate per 5 miliardi di dollari. Ma la classica goccia che fa traboccare il vaso è giunta con il rapimento di al-Libi. I gruppi islamici si inalberano quando il segretario di Stato Usa, John Kerry, afferma pubblicamente che il governo di Tripoli era a conoscenza del progetto di blitz. Zeidan, messo alle corde, nega, chiede spiegazioni a Washington. Ma il danno è fatto. Ieri, pomeriggio, appena dopo la liberazione, lui stesso, pallido e teso, durante una conferenza stampa ha invocato calma, dialogo e soprattutto la «costituzione di un esercito nazionale». Ma il significato della crisi è sotto gli occhi di tutti: sono ormai trascorsi due anni e 21 giorni dal linciaggio di Muammar Gheddafi alle porte di Sirte e in Libia continua a dominare l’anarchia.