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 2013  ottobre 10 Giovedì calendario

LA BANCHIERA


Per uscire dalla crisi — dice Barack Obama — un ruolo decisivo spetta alla banca centrale. La mia scelta per guidarla è Janet Yellen. Il mondo guarda al presidente della Federal Reserve in cerca di leadership e di stabilità». Nel momento del pericolo, con l’emergenza- default che si avvicina a grandi passi, il presidente “riempie” lo stallo legislativo con un annuncio storico. Per la prima volta una donna conquista il vertice della Federal Reserve, la più potente delle banche centrali, anche se sulla sua strada ora c’è la conferma al Senato dove la destra farà il possibile per intralciarla. È una novità, e non solo per l’America: una “prima” mondiale. Per la prima volta si scalfisce il monopolio maschile, nel club esclusivo dei banchieri centrali. Non è un caso che per lei si siano mobilitate tante donne leader nel partito democratico, dal capogruppo alla Camera Nancy Pelosi alla senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren. Guarda caso, due donne che sono anche esponenti dell’ala sinistra nel loro partito. Perché la nomina della Yellen è un messaggio multiplo, lanciato in più direzioni: una svolta femminista, ma anche una scelta strategica per la futura politica monetaria.

Obama ricorda di lei che «denunciò in anticipo la bolla speculativa dei mutui subprime », e che oggi sarà all’avanguardia «nel proteggere dalle banche i risparmiatori e i consumatori».
Di tutti i possibili candidati alla guida della Fed, lei è quella che può portare a termine una vera e propria rivoluzione, iniziata sotto il mandato di Ben Bernanke. È una svolta negli equilibri istituzionali, e nel “segno sociale” del governo monetario: che viene messo al servizio della crescita e dell’occupazione come non era mai accaduto prima. Coglie il senso della svolta un commento di parte maschile, quello del senatore Sherrod Brown (democratico) che iniziò la raccolta di firme a favore della Yellen e contro il suo rivale Larry Summers. «È un momento storico per la Federal Reserve, per le donne, e per tutti noi che abbiamo a cuore la lotta alla disoccupazione».
La biografia professionale della Yellen è eloquente. Come economista si formò a Yale alla scuola del premio Nobel James Tobin, un neokeynesiano, assertore del ruolo decisivo dell’intervento pubblico per uscire dalle recessioni. Lei fu docente all’università di Berkeley, polo californiano del pensiero progressista. Il New York Times la descrive come «un membro di quella contro-cultura che iniziò ad attaccare il dogma dell’efficienza dei mercati». Perfino la sua vita privata porta il segno di questa scelta ideologica: suo marito George Akerlof, anche lui un Nobel («un anticonformista, la persona che più si avvicina a Woody Allen», secondo la definizione data di lui da Lord Desai della London School of Economics), si è conquistato la sua fama smontando le teorie liberiste sull’auto-regolazione dei mercati. Con un saggio dal titolo inequivocabile: “Il mercato dei bidoni”.
A 67 anni la Yellen ha ricoperto tante cariche importanti, ivi compresa quella di capo dei consiglieri economici di Bill Clinton nel 1996. Sarà la prima esponente del partito democratico a guidare la Fed da un quarto di secolo (l’ultimo fu Paul Volcker fino al 1987, seguito dai repubblicani Alan Greenspan e Ben Bernanke). Nei 40 anni della sua carriera la parte prevalente l’ha trascorsa alla banca centrale, prima nell’ufficio studi, poi come capa della Fed di San Francisco, infine come vice-presidente e numero due di Bernanke. Qui sta un aspetto del suo curriculum che la distingue da tanti rivali e la distinguerà anche da tanti colleghi stranieri: come Bernanke, la Yellen ha sempre lavorato al servizio del pubblico, mai della finanza privata. È un distinguo significativo, in un’America dove si praticano le “porte girevoli” tra la finanza privata e le istituzioni governative.
Per capire la portata di questa nomina bisogna tornare a quel 15 settembre in cui il suo rivale Larry Summers fu costretto a gettare la spugna, ritirandosi dalla corsa per la Fed. Summers fu osteggiato con una vera e propria campagna pubblica, un evento mai accaduto nella storia della Fed: una conferma del nuovo protagonismo delle banche centrali nell’èra post-crisi. Tra le “macchie” di Summers, ironia della sorte, c’è un peccato di maschilismo: quand’era rettore di Harvard fece una dichiarazione disastrosa teorizzando la superiorità dei maschi nella matematica e nelle scienze. Ora lo ha battuto sul filo del traguardo quella che i colleghi accademici hanno definito «una donnina molto piccola con un quoziente d’intelligenza molto grande». Un altro handicap di Summers è la sua posizione agnostica, vagamente scettica, sull’utilità della politica di “quantitative easing”, cioè quell’esperimento gigantesco che la Fed ha operato comprando titoli sui mercati per pompare liquidità nell’economia al ritmo di 85 miliardi al mese. Ma infine ad attirare verso Summers l’ostilità della sinistra democratica fu il suo rapporto “incestuoso” con Wall Street. Conflitto d’interessi personale, visto che Summers ha guadagnato laute parcelle come consulente di hedge fund. Conflitto d’interesse ideologico, poiché da segretario del Tesoro di Clinton lui varò una deregulation finanziaria dagli effetti nefasti. Oltre a essere una donna la Yellen è l’anti-Summers in tutte queste altre dimensioni. Non ha mai lavorato per “quelli di Wall Street” e dunque non è sospetta di complicità verso i loro eccessi. Questo è importante in una fase in cui — dopo l’approvazione della legge Dodd-Frank con cui Obama ha voluto regolamentare i mercati — l’incisività della vigilanza sulle banche dipende molto da chi sta al vertice delle authority. Anche se la Yellen non ha abbracciato le visioni più radicali — come lo smembramento delle mega-banche invocato dal suo predecessore Volcker — tuttavia è considerata un falco sui temi della vigilanza anti-speculazione. Eppure paradossalmente piace a Wall Street per un’altra ragione: in quanto “colomba” nella politica monetaria. Con lei i mercati non hanno ragione di temere una fine prematura del grande esperimento che li ha inondati di liquidità.
Resta il fatto che quell’esperimento ha ormai i mesi contati. Già il 22 maggio Bernanke aveva annunciato l’imminente ridimensionamento del “quantitative easing”. I mercati avevano reagito con inquietudine, nervosismo, volatilità. Le ripercussioni più gravi si sono sentite alla periferia del sistema: nei paesi emergenti dove una parte della liquidità creata della Fed era andata negli anni scorsi a gonfiare bolle speculative. Ma anche per i portafogli dei risparmiatori occidentali, europei inclusi, dal 22 maggio si era innescato un rovesciamento delle attese sui tassi: con la previsione di futuri rialzi dei rendimenti, i fondi comuni obbligazionari, i fondi pensione, le polizze vita, vanno incontro a perdite in conto capitale (lo stock gigantesco dei bond esistenti perde valore quando salgono i tassi sui bond nuovi). Di recente Bernanke e la Yellen hanno dovuto ripensarci, quanto meno rinviando l’aggiustamento della politica monetaria a tempi migliori. La ripresa economica Usa non è vigorosa come si vorrebbe, soprattutto per colpa dello “shutdown” con cui la Camera a maggioranza repubblicana lascia a casa senza stipendio mezzo milione di dipendenti federali. Nello stallo della politica, la banca centrale deve continuare a svolgere un ruolo di supplenza. La nomina della Yellen è coincisa non a caso con questa grave crisi istituzionale: Obama ha voluto esercitare in pieno una delle sue prerogative presidenziali per contrastare l’impressione di un’economia senza timoniere. Ora a reggere quel timone dalla fine di gennaio arriva una donna che ha ispirato una delle decisioni più innovative della Fed: dare come obiettivo principale della politica monetaria la creazione di lavoro, per schiacciare il tasso di disoccupazione sotto il 5%. Nessun’altra banca centrale ha una missione così esplicitamente mirata a migliorare la sorte dei disoccupati.