Valerio Magrelli, la Repubblica 10/10/2013, 10 ottobre 2013
TWITTER PRIMA DI TWITTER
«Non ho abbastanza tempo per essere breve». A distanza di secoli, la folgorante osservazione del filosofo sembra aver conservato tutta la sua provocatoria verità. Sia pure sotto nuove forme, infatti, quella secolare arte della concisione, della “concinnitas” latina, già insegnata nelle scuole di retorica antica, sembra oggi prepotentemente riaffermarsi. Così, i celeberrimi precetti di Orazio («perché la frase scorra, bisogna essere brevi») si ritrovano in tante nostre modalità espressive, tradotti in parametri tecnologici ma sostanzialmente immutati: lo si vede nel famoso schema di 140 caratteri richiesto dal linguaggio di Twitter.
Come ha spiegato Maurizio Ferraris sulla scia di Derrida, l’evoluzione tecnologica non ha portato al trionfo dell’oralità e alla scomparsa della scrittura, bensì, al contrario, a una proliferazione di quest’ultima. Prova ne sia che, dopo essersi rimpiccioliti, i telefonini si sono ingranditi fino all’iPad, per avere uno schermo e una tastiera; dunque, per poter scrivere, non per poter parlare. Sono cioè diventati biblioteche, discoteche, cineteche e pinacoteche. Né è un caso che il traffico di sms abbia ormai superato quello vocale. Nel suo profondo, quindi, la società della comunicazione pare piuttosto una società della registrazione, col corollario per cui la brevità rappresenta il primo requisito dell’efficacia.
E qui torniamo alla nostra “concinnitas”. A dimostrare la coincidenza fra storia delle lettere e logica della comunicazione post-moderna, sta l’attenzione dell’editoria italiana e straniera per le cosiddette “forme brevi”. Per quanto riguarda la produzione saggistica, dopo i canonici studi di Alain Montandon, Corrado Rosso, Giulia Cantarutti e Gino Ruozzi (autore del recente Divina “brevitas”, un saggio sulle massime di Giuseppe Pontiggia apparso nella rivista Secondo Tempo), sono stati da poco pubblicati Poeti e aforisti in Finlandia (a cura di Fabrizio Caramagna e Gilberto Gavioli, Edizioni del Foglio Clandestino, pagg. 240, euro 14) e Antologia dell’aforisma romeno contemporaneo (a cura di Fabrizio Caramagna, Genesi, pagg. 196, euro 20).
Ben più rilevanti però, agli occhi del grande pubblico, risultano gli Aforismi di Shiva, composti da Vasugupta nel IX secolo (a cura di Raffaele Torella, Adelphi, pagg. 323, euro 17), o i Modi di dire. Adagiorum collectanea, di Erasmo da Rotterdam (a cura di Carlo Carena, Einaudi, pagg. 800, euro 85). Se il primo volume costituisce un classico della letteratura tantrica, il secondo, apparso in pieno Rinascimento, raccoglie una messe di proverbi, aforismi e motti. Il testo non nasconde l’importanza del suo risvolto pratico, suggerendo di ricorrere ai materiali riportati «per una metafora suadente, fine e appropriata, per un sarcasmo pungente e salace, per una battuta arguta e piacevole [...] o per un’allusione spiritosa che solletichi il lettore desto o ridesti l’assonnato».
D’altronde, Erasmo aveva poco più di trent’anni quando iniziò a radunare gli Adagia del patrimonio greco e latino, selezionandone un migliaio per la prima edizione del 1500 e arrivando a più di quattromila per l’ultima, nel 1553.
Soffermandoci ancora sul mercato librario, altrettanto interessante risulta il panorama delle proposte in formato elettronico, che per esempio, solo nel 2013, ha registrato in Francia l’uscita di una decina di ebook dedicati esclusivamente alle opere di La Rochefoucauld. Proprio su questo sommo moralista francese del Seicento, si è per altro soffermato Gianfranco Ravasi, in un articolo sul Sole 24 Ore dedicato alla capacità di percussione posseduta dalla scrittura aforistica. Chi non ricorda alcune memorabili frasi, forgiate con insuperata e lapidaria capacità di sintesi? Una per tutte: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».
Partendo da queste considerazioni, suona assai indicativo che un critico quale Roland Barthes scorgesse nelle massime del Duca autentici ordigni bellici, creati allo scopo di far saltare le difese del conformismo e della morale tradizionale. E non fu certo un caso, se a raccogliere l’eredità di moralisti come Chamfort o Vauvenargues fosse in ultimo Nietzsche, che userà il loro lascito come una vera e propria leva per scardinare le convenzioni della società borghese. Saranno appunto loro a indicargli la strada della sua rivoluzionaria Genealogia della morale o di Umano, troppo umano: «La Rochefoucauld e quegli altri maestri francesi dell’esame psicologico, somigliano a tiratori dalla mira infallibile, che colgono ogni volta immancabilmente nel nero centro, che è il nero della natura umana ».
Negli scrittori di massime, insomma, forma e messaggio fanno tutt’uno. Se l’intenzione dell’autore consiste nello svelare il meccanismo segreto del nostro animo (nascosto da millenni di menzogne e ipocrisie), la brevità dell’espressione serve a rendere indimenticabile la scoperta effettuata. Non per niente, in francese, la battuta, l’aforisma, possono essere indicati con il termine “pointe”, ovvero punta, aculeo, pungiglione.
Che differenza rispetto al linguaggio amorfo, prolisso, fumoso al quale ci hanno abituato i nostri uomini politici! A loro non mancherebbe certo il tempo per essere chiari e concisi; ma questo è proprio quanto cercano di evitare a tutti i costi.
Forse risiede anche qui il prepotente successo delle forme brevi: ritrovare uno stile, una pronuncia in cui torni a risuonare quella verità ormai tragicamente bandita dall’universo della comunicazione quotidiana. Lasciamo allora l’ultima parola a La Rochefoucauld: «Quello che il mondo chiama virtù, di solito è solo un fantasma formato dalle nostre passioni, al quale si dà un nome onesto per fare impunemente ciò che si vuole».