Matteo Persivale, Corriere della Sera 10/10/2013, 10 ottobre 2013
IL SORRISO DI MARGHERITA E I LUTTI CHE NON DIMENTICÒ
Un uomo rancoroso, permalosissimo, incapace di dimenticare uno sgarbo — o presunto tale — a distanza di molti decenni pur dall’alto di una carriera straordinaria, che pretendeva di insegnare con veemenza al capomastro come si costruisce un muretto e al cuoco come si prepara la spalla cotta; un parlatore spesso logorroico, diffidentissimo, mosso da pessimismo e ateismo senza limiti. Un compositore il cui genio trascende la musica e lo rende, come dice il titolo di uno degli studi più belli a lui dedicati di recente, «uomo di teatro» come Shakespeare, che di Shakespeare aveva lo sguardo assoluto, capace di raccontare ogni sentimento, ogni emozione, ogni moto dell’animo, «come l’occhio di Dio», attraverso i personaggi di una commedia umana senza paragoni nella storia della musica. Un ragazzo di ventisei anni che sogna di diventare un grande compositore e a quell’età ha già sepolto l’amata sorellina, i due figli piccolissimi e la moglie morta di meningite o forse semplicemente di crepacuore, che scrive la sua prima «commedia giocosa» in quel lutto e sperimenta un insuccesso tanto devastante da convincerlo a cambiare città, mestiere, vita, per sempre.
Specialmente nel giorno del suo duecentesimo compleanno bisogna ricordare che Giuseppe Verdi è stato tutte queste cose insieme, l’uomo che per ripicca non visitò mai il teatro a lui intitolato e rifiutò sferzante gli onori del Conservatorio che l’aveva scartato sessant’anni prima, ma anche l’uomo capace di gesti di enorme generosità e filantropia, il ricco maestro che si prese cura dell’amico e collaboratore Francesco Maria Piave reso invalido dalla malattia, e costruì un ospedale e una casa di riposo per artisti che considerava l’unico monumento alla sua memoria, il figlio di contadini che diventato ricco e famoso rifiutava di andare alle feste lasciando la servitù in carrozza, all’aperto, nel gelo della notte russa come era costume in quei tempi.
Un uomo complesso come i suoi personaggi davanti al quale i biografi non possono non indicare la morte della amata sorella diciassettenne, dei due figli piccolissimi e della moglie come un elemento centrale della vita e dell’opera. Per questo, oggi, 10 ottobre 2013, è giusto tornare al 5 settembre 1840, alla prima di Un giorno di regno alla Scala di Milano, seconda opera e prima commedia di Verdi (non ne scriverà più fino alla vecchiaia, all’estremo Falstaff che peraltro, come spiegava Carlo Maria Giulini che ne ha dato una versione molto amata, «è allegra soltanto nel finale» ma è sostanzialmente una storia triste e amara, come pensava anche Orson Welles). Quella sera di settembre il «melodramma giocoso», libretto di Felice Romani, su commissione dell’impresario di Donizetti e Bellini, Bartolomeo Merelli, viene accolto malissimo — proprio l’attenzione al botteghino, leggendo le lettere di tutta la carriera verdiana, fu la costante ossessione della sua vita musicale — e Verdi decide di non comporre mai più. Lascia la casa di Porta Ticinese a Milano dove vive da poco più di un anno — una volta era stato costretto a pagare l’affitto con i soldi portati dalla moglie Margherita che a sua insaputa aveva impegnato i pochi gioielli della dote — e si ritira a Busseto, e quando più tardi torna a Milano lo fa soltanto per insegnare musica. Poi ci sarà il ritorno all’attività di compositore, sempre su invito di Merelli, il Nabucco , i successi, l’inizio di un primato musicale, almeno in Italia, lungo almeno fino alla fine del secolo.
Ma la storia del giovane Verdi è quella di un ragazzo che più che dalla musica viene plasmato dalla morte delle persone amate: il 5 maggio 1836 sposa Margherita Barezzi a Busseto, e poco più di dieci mesi più tardi, il 29 marzo 1837, nasce Virginia che prende il nome dalla tragedia dell’Alfieri, altro nume verdiano oltre a Shakespeare (che a metà Ottocento in Italia e non solo era, incredibilmente, un autore di nicchia). La bimba non arriva a diciotto mesi: muore il 12 agosto 1838. L’11 luglio 1838 nasce Icilio, altro nome ispirato ad Alfieri, e vivrà poco più di un anno, fino al 22 ottobre 1839. Il 17 novembre 1839 fa il debutto da compositore alla Scala, con Oberto conte di San Bonifacio , non un successone ma un buon risultato che gli garantisce il contratto con Merelli. Il 18 giugno dell’anno successivo muore anche Margherita. Viene sepolta nel cimitero milanese di Porta Vercellina, poi spianato nel 1895, quando Verdi è ancora vivo e risposato con Giuseppina Strepponi, ricco e famoso, e non risulta fece nulla per conservarne i resti.
Nell’Autobiografia dalle lettere il curatore Carlo Graziani scrive che il dolore della sua scomparsa non venne dimenticato da Verdi, ma «sepolto». Di lei non restano lettere a Verdi. C’è un ritratto, al museo della Scala: una ragazza dai capelli chiari pettinati in una maniera che pare antiquata anche per l’Ottocento, il naso lungo e diritto, l’ovale regolare, il sorriso timido. Indossa un abito di broccato rosso. Nella mano sinistra, dalle dita nervose, tiene un ventaglio ripiegato. È Margherita, la ragazza dai capelli strani che un giorno si tolse una collana per aiutare il marito a diventare il più grande compositore del mondo.