Luca Dini, Vanity Fair 9/10/2013, 9 ottobre 2013
RAOUL BOVA
Alle voci ho sempre cercato di non dare peso. Ma non avevo mai vissuto un periodo come questo, dal punto di vista della pressione dei media. I toni invece di smorzarsi diventano ogni giorno più sgradevoli, ogni giorno più cattivi. E se io sono un personaggio pubblico e conosco le regole del gioco, i miei figli non hanno fatto nulla per meritarsi questo trattamento, per essere braccati. L’assedio dei fotografi non lo capiscono, li stanca, li spaventa.
«Poi c’è la scuola: i compagni a casa hanno genitori che leggono, ascoltano, e a tavola commentano queste cose, e i figli le sentono, e tornando a scuola le ripetono, con la cattiveria che possono avere i bambini: tuo padre sta male, tuo padre è un ladro, tuo padre divorzia, tuo padre è gay. Loro non hanno gli strumenti di difesa che abbiamo noi e, anche se sanno che cosa è vero e che cosa non lo è, ci rimangono male.
«Già faccio un grandissimo lavoro per essere presente, e con il mio lavoro di tempo ne ho poco, già è scomodo il confronto con un padre ingombrante, già è difficile mantenere un rapporto normale. Se mi vedo costretto a parlare, a mettere le cose in chiaro con questa intervista che spero plachi un po’ le acque, è per proteggere loro».
Basta guardarlo negli occhi, abbassati da un visibile disagio, per capire che Raoul Bova si sta facendo violenza. E davvero solo per tutelare i suoi figli – verso i quali sente la responsabilità di un lavoro che dà alla sua famiglia tanti privilegi, ma che inevitabilmente fa a pugni con la voglia di normalità di ogni ragazzino – rompe un silenzio che avrebbe volentieri continuato a osservare, per poi magari diffondere tra qualche giorno, a cose fatte, a separazione formalmente conclusa, un semplice comunicato stampa.
Quella che sta per raccontarmi, in un albergo nel centro di Roma, è un’esperienza che non ha niente di straordinario. Le due metà di una coppia che crescendo si allontanano, l’impossibilità di rassegnarsi alla fine di un amore, l’ostinazione a riprovarci anche e soprattutto per non far soffrire i figli – che sono due, e hanno tredici e dodici anni –, il senso di sconfitta quando alla fine ci si rende conto che la frattura è irreversibile, la tenerezza che resta nel ricordo di una persona con cui si sono condivisi giorni felici, sogni e progetti, e con cui per sempre si condividerà la responsabilità dell’essere genitori.
Di straordinario, qui, c’è solo che Raoul Bova è Raoul Bova, e non può separarsi da Chiara Giordano, dopo tredici anni di matrimonio e quindici insieme, sperando di farlo in silenzio. Perché i paparazzi hanno fotografato le loro vacanze in solitaria e i giornali le hanno pubblicate, accompagnate da supposizioni assortite – Bova è in crisi matrimoniale, Bova è in ospedale gravemente malato, Bova è un evasore fiscale – e il risultato è che i fotografi gli stanno sotto casa giorno e notte, su Facebook un’ex vincitrice del Grande Fratello lo descrive come omosessuale (poi si corregge, «era un post ironico», ma dove sta l’ironia quando di mezzo ci sono due minori?), un giornale della free press spara il titolo
virgolettato «Bova è gay, per questo divorzia», che segna un nuovo stadio nell’aggressione mediatica, e che unisce tutta la famiglia – compreso l’avvocato Annamaria Bernardini De Pace, madre di Chiara e quindi nonna materna – in una cerchia di protezione attorno ai figli di Raoul.
Chiara e io nel tempo siamo molto cambiati. Il cambiamento a volte unisce e a volte no. Noi due, purtroppo, non ci siamo più capiti. È inutile che ora si scateni la caccia: la crisi nasce da noi e da nessun altro, e né Chiara né io saremmo così superficiali da dimenticare tredici anni di matrimonio perché abbiamo incontrato qualcuno. Semplicemente, come succede a tanti, ci siamo un po’ dimenticati di noi, e alla fine non ci siamo più trovati.
«Ma avevamo talmente forte il senso della famiglia che abbiamo cercato di non vedere i nostri problemi finché abbiamo potuto, finché sono usciti fuori tutti insieme. Allora è iniziato un periodo molto lungo – quasi tre anni, ormai – in cui ci siamo parlati, ci siamo confrontati. Abbiamo provato in tutti i modi a risolverli, quei problemi – abbiamo seguito i percorsi di terapia che normalmente si fanno, siamo andati in vacanza insieme, ci siamo messi l’uno a disposizione dell’altro – ma purtroppo non è bastato.
«Certo che vorresti in ogni modo risparmiare ai figli il dispiacere, ma che cosa fai, resti insieme solo per illuderti di non ferirli? Li fai vivere nella menzogna? La serenità non è una cosa che si può fingere: loro, infatti, avevano già capito. E noi alla fine – dopo tre anni, ripeto – abbiamo deciso di comune accordo, con grandissimo dolore e con grandissima civiltà, di prendere strade diverse. Lo abbiamo fatto perché crediamo troppo al valore della famiglia per tenerla in piedi a qualunque costo, come facciata, senza onestà. È un atto non dico di amore, ma di rispetto per l’amore che c’è stato tra noi.
«Io sono cattolico, sposato in chiesa, ma non penso che Dio mi voglia vedere buttar via la vita che mi ha regalato. Vuole che io la viva pienamente, e nella sincerità. Lo devo a lui, lo devo ai miei figli. I miei figli sanno che, per loro, Chiara e io ci saremo sempre, saremo presenti, saremo uniti. E nessuno deciderà per loro se non noi due».
Per fare breve una storia lunghissima: Bova non è, come hanno scritto i giornali, un evasore. Quello che gli contesta l’Agenzia delle entrate – dopo accertamenti su dieci anni di contabilità – si chiama «abuso di diritto». In pratica, dichiarare tutto ma usufruire di un regime fiscale agevolato che le norme consentono, e a cui però è opinabile se si abbia davvero diritto.
Tutto ruota intorno alla Sanmarco, la società incaricata di promuovere l’immagine di Raoul trovandogli ruoli, e producendoli. Titolari e amministratori sono, con Raoul, le sorelle e la moglie – fatto piuttosto comune, nell’entourage di un artista. L’Agenzia delle entrate sostiene però che la Sanmarco era una scatola vuota, creata ad hoc per ottenere agevolazioni fiscali, e che lui, essendo già popolarissimo, non aveva bisogno di alcuna promozione. Bova ribatte che il lavoro della Sanmarco – una serie di fiction, film e documentari, tutti prodotti e trasmessi con successo, tutti scelti e voluti e non proposti dall’esterno – è stato invece fondamentale per accrescere il valore della sua immagine. Insomma, ci sarebbe di che contestare l’accertamento fiscale. Ma la materia ha confini poco nitidi, andare a contenzioso significa pagare avvocati per dieci anni con il rischio di sborsare, se va male, l’importo moltiplicato da pesantissime sanzioni. Non solo: intanto bisogna subito versare un acconto molto salato che, in caso di vittoria, ci si vedrà restituire solo sotto forma di credito di imposta, chissà quando. Se invece si accetta di pagare subito, si evita il rischio delle sanzioni più alte, e ci si toglie il dente. Nel caso di Raoul, si tratta di 680 mila euro. E tutti gli dicono: paga, escine, non ti far trascinare in dieci anni di angoscia. È il motto del commercialista: meglio un cattivo pagamento che un buon giudizio.
Raoul paga. Ma la vera mazzata deve arrivare. Perché, se la somma contestata supera una certa soglia, l’abuso di diritto sconfina nel penale. Benché il dovuto sia stato in gran parte già pagato, il pubblico ministero chiede un sequestro cautelativo per un milione e mezzo di euro. ll Gip e la Cassazione bocciano la richiesta non riconoscendo al comportamento un rilievo penale. Il Tribunale del Riesame ribalta tutto, e arriva il sequestro: tre case di proprietà dell’attore.
Soprattutto, con l’approdo in procura la vicenda – finora gestita con discrezione dalla Guardia di Finanza – trapela ai giornali. Che volentieri sparano titoli sul Bova evasore. Gira una battuta, «Ultimo anche a pagare le tasse».
«Se fossi un evasore, avrei tenuto tutto qui in Italia? Sa quante volte mi hanno proposto di mettere in piedi una società all’estero? È frustrante dover pagare quando sai di avere ragione ma non sai se riuscirai a fartela riconoscere, perché la legge non è precisa e le interpretazioni sono troppo arbitrarie. Mi sono sentito violentato.
«E il sequestro che senso ha, quando sto già pagando, quando quelle tre case valgono molto di più? Non è il mio caso fortunatamente, ma sequestro significa che, se sei in difficoltà economiche, quelle case non le puoi vendere per cinque-sei anni. Se le hai date in affitto e magari con l’affitto ci pagavi il mutuo, quei soldi non li prendi più.
«Mi dicono: fregatene. Ma io ho un onore, una reputazione, sono onesto e voglio girare a testa alta. Tanti nervosismi nella mia vita privata sono stati anche un riflesso di questa situazione. Vado a rinnovare il passaporto e mi guardano strano, mi fanno aspettare due ore, come fossi un terrorista. Ma in Italia mi conoscono tutti, dove volete che scappi? Ti senti sporco, ti senti offeso nella dignità».
Lo dico apertamente: mi piacciono le donne. Se fossi omosessuale, credo che non avrei nessun problema a riconoscerlo. O forse non lo direi: perché questo obbligo di dichiararsi, di giustificarsi? Nessuno va in giro a dire: piacere, sono etero».
Se fosse gay, sarebbe anche diabolico. Perché difficilmente un gay nascosto accetterebbe di diventare, come ha fatto lui un anno fa sulla nostra copertina, uomo-immagine di una sottoscrizione a favore dei diritti delle coppie omosessuali, sottoscrizione che diversi dei suoi colleghi – con scuse più o meno penose – si sono rifiutati di firmare.
«Ho aderito perché odio tutte le discriminazioni, e odio questa. Più di metà dei miei amici sono gay. Persone con cui sono cresciuto e andato a scuola, con cui lavoro. È per loro, soprattutto, che mi fa ribrezzo questo modo razzista e retrogrado di usare l’etichetta di omosessuale come una macchia inconfessabile, una peste. E poi, ripeto, chiedo un minimo di riguardo verso i miei figli. Non te la stai prendendo solo con me, te la stai prendendo con un ragazzino che subisce la tua superficialità e la tua mancanza di coscienza».
Questa, per il lavoro, è l’età più bella. Sei finalmente un uomo, puoi interpretare in modo credibile personaggi che hanno una vita alle spalle, uno spessore. A dicembre esce Indovina chi viene a Natale?, dove io sono il fidanzato che Cristiana Capotondi porta a conoscere ai genitori, Diego Abatantuono e Angela Finocchiaro. Solo che c’è un problema: ho perso le braccia in un incidente, e questa condizione tira fuori tutta la loro ipocrisia, perché a parole aiutano il prossimo, ma quando ce l’hanno davanti non lo aiutano per niente. Quanti hanno un amico disabile, quanti lo portano a bere una birra? Ci faccia caso, i bagni dei disabili nei bar sono pulitissimi: non ci va nessuno. Grazie alla consulenza di un ragazzo con quella stessa disabilità, ho imparato a fare tutto con i piedi: rispondere all’iPhone, bere il tè, accendere il camino. C’è voluta tanta ginnastica per rafforzare certi muscoli delle gambe che usiamo poco, e stretching per avere elasticità e riuscire a toccarti l’orecchio con un piede. Soprattutto, è stato un viaggio istruttivo nei panni di un altro».
Il set della commedia di Fausto Brizzi è stato movimentato dall’incidente che ha alimentato la «Boveide»: il ricovero per un febbrone da infezione batterica, a due mesi dall’intervento per rimuovere l’appendice. «Nessun legame tra i due episodi, e nessun pericolo di vita. Ho deciso di ricoverarmi perché mi hanno detto di scegliere: o trenta giorni a casa con gli antibiotici per via orale, o una settimana in ospedale con le flebo. Brizzi e il cast sono stati dei gran signori, mi hanno detto di prendermi tutto il tempo, ma non potevo certo sparire per un mese».
Adesso girerà, con Silvio Muccino e la regia di Alessandro D’Alatri, la storia – per ora intitolata Un nuovo inizio – di due fratelli molto diversi. Raoul stakanovista, Silvio scapestrato. Hanno un incidente, Raoul perde la memoria, e il fratellino lo aiuta a ritrovare, assieme ai ricordi, se stesso. Che è un po’ quello che desidera per sé, nella vita. «Passata tutta questa tempesta, un po’ di serenità e di tranquillità, per me e per la mia famiglia. Tornare a vivere come ho vissuto fino a oggi. Con armonia».