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 2013  ottobre 09 Mercoledì calendario

QUELLA MALEDETTA MOTO [MAX PEZZALI]


La quindicesima parola dell’autobiografia di Max Pezzali è «moto». Una piccola moto è disegnata sopra tutti i numeri di pagina. Del resto, se uno pensa a Max Pezzali, nove su dieci viene in mente un tizio su una moto. Ma se si arriva in fondo al libro – che parla sì della poetica degli 883, il duo degli esordi che prende il nome da una Harley-Davidson; del «tizio che balla dietro» (Mauro Repetto); di Come mai; della comitiva; degli «anni in motorino sempre in due»; della «regola dell’amico» e di «non me la menare»; dell’Uomo Ragno e del mito americano – si fa una scoperta. Esiste Massimo e un altro: «Maxpezzali» tutto attaccato, come lo chiama suo figlio Hilo, cinque anni.
Prima che diventi «Maxpezzali», prima della carriera solista, e prima di festeggiare il ventennale di quest’ultima in modo trionfale (l’album Max 20, uscito il 4 giugno, è disco di platino e ha generato un tour di 30 date, molte già esaurite), c’è Massimo, cresciuto a Pavia nel negozio di fiori del padre, all’inizio indebitato «fino al collo». Nascosto dietro gli occhialoni neri da nerd («molto prima che fosse una moda hipster») si sente diverso da tutti i suoi coetanei. È uncool, isolato: a scuola dribbla il rancio delle suore e schiva i bulli, è esonerato dalla ginnastica (a causa di uno sterno eccessivamente concavo). Capisce presto che non farà parte dei jocks, gli sportivi con il maglioncino sulle spalle: finisce nel tunnel del modellismo, dei soldatini, degli aeroplanini, dei fumetti Marvel, degli amici metallari. Poi la svolta: in casa entra uno stereo e il punk dei Sex Pistols (anche se «il nostro era più un anarchismo basato sulla figa, ossia non eravamo contro il sistema ma contro i “panatta con il maglioncino di cashmere sulle spalle” che affascinavano le ragazze»). Molla gli occhiali e passa alle lenti a contatto che fanno esplodere i «contatti» con le ragazze. Al liceo è bocciato e diventa compagno di banco di un paninaro, Mauro. Il resto è storia. I primi demo, il successo, l’addio di Repetto (dopo il lento Come mai, non potendo più «ballare dietro»), i dischi solisti.
Negli ultimi vent’anni Max Pezzali è ingrassato e dimagrito varie volte. Quando lo incontro è magrissimo, sotto peso di un paio di chili. Ne ha persi 23 in cinque mesi, dopo essere arrivato a pesarne fino a 106. Alcuni hanno pensato che fosse malato, non è così.

Scrive nel libro: «Mi diverte molto dividere la vita in «momenti ponderali», che significa?
«Ho vissuto da grasso e da magro, e tutto è successo molto naturalmente: quando mi sono trasferito a Roma uscivo sempre a cena, mi sono rilassato. Poi mi sono annoiato nella mia condizione di grasso, sono andato da un dietologo e ho pesato tutti i cibi per mesi. Mi viene facile fare una cosa se decido che voglio ottenere un risultato, come quando ho smesso di fumare».
Come si sente?
«Benissimo. Essere grassi per un lungo tempo ti serve anche a sviluppare l’ironia e l’autoironia, diventi bersaglio di battute».
Sembra molto in pace con se stesso eppure il suo ultimo singolo si chiama Ragazzo inadeguato e all’inizio della sua autobiografia racconta della sensazione di inadeguatezza che provava da ragazzo, ma che sente ancora. Dopo i successi di quest’anno, sembra un po’ una posa.
«I successi di “Maxpezzali” sono una cosa, poi c’è Massimo. Siamo davvero due persone diverse che coabitano nello stesso corpo. L’inadeguatezza è di base, nel tempo ha preso solo forme diverse».
In che senso si sente inadeguato oggi?
«Chi fa il mio mestiere deve muoversi in un certo modo e si presuppone che chi si mette in gioco debba avere un ego enorme. Io no, e l’inadeguatezza mi ha insegnato a mimetizzarmi. Salgo su un palco, ma è come se non ci fossi. Il fatto che parta la musica e che ci sia io a cantare, già questo, per me, è sbagliato».
In che senso?
«Non so che cosa fare. I cantanti dei talent show sanno già le mosse... Ha presente un concerto di Jovanotti? È uno showman: cambi d’abito, balli... Ai miei concerti è l’opposto. All’inizio salivo sul palco col giubbotto e sudavo un casino. Pensavano che fosse una scelta di stile, invece nessuno ci aveva detto di cambiarci per andare in scena. Oggi le cose non sono cambiate: so che devo avere due magliette a concerto, preferibilmente nere per mimetizzare il sudore, che i jeans durano due date. Questa è la mia preparazione del tour. Quindi faccio la valigia contando i concerti e 
moltiplicando le T-shirt. Chiuso il problema».
Non gira con assistenti?
«Non sempre. L’altro giorno ero in treno con Gianni Morandi, arrivavo da Roma a Milano. Quando ci siamo salutati mi fa: “Bello che non ti è venuto a prendere nessuno, sei molto indipendente...”. In realtà, gli ho detto, avrei ancora dovuto prendere il regionale per Pavia. Era ancora più sorpreso. Forse dovrei avere l’autista, insomma. Ma io ragiono ancora come quando non mi filava nessuno».
Come si spiega questo basso profilo con il successo non solo di pubblico, ma di critica e il supporto di praticamente tutta la musica italiana, da Ramazzotti a Baglioni, da Bennato a Cremonini?
«Io, nonostante sia sempre uncool, per uno strano allineamento astrale oggi sono cool. Anche un orologio fermo due volte al giorno ha ragione. Quando l’uncool fa tutto il giro, due volte può essere cool. Ma è solo un caso».
Come fa a essere «amico di tutti»?
«Perché non vengo percepito come una minaccia. Ho rapporti interpersonali forti perché non sono competitivo, da quando fui esonerato dalla ginnastica. Continuo a essere fan della musica, uno che vede i colleghi non come propri pari ma come un precario che guarda gli altri con stima e i colleghi se ne accorgono. Ho l’entusiasmo del neofita non la sicurezza dell’addetto ai lavori».
A fine anno di cosa si ricorderà di più?
«Il successo del singolo L’universo tranne noi, che io consideravo un pezzo minore. Parla di un amore finito. Invece mi ha avvicinato a tantissima gente che voleva raccontarmi la fine delle proprie storie. Sono diventato una sorta di “corvo” delle coppie. Non mi succedeva di scatenare un simile dibattito dai tempi della “regola dell’amico”».
Anche il suo matrimonio è finito, -abbiamo appreso da Twitter e Facebook a fine agosto, quando si è scambiato un saluto con sua moglie Martina.
«La canzone nasce prima, dall’osservazione di coppie di amici. Però, forse, ha anticipato anche la mia storia. Siamo arrivati alla fine di un percorso ed è il momento di prendersi del tempo per capire se gli obbiettivi sono ancora comuni o è il momento di andare ognuno per la propria strada. È più maturo affrontare le cose in cooperazione che dire: o stiamo insieme per 
abitudine, o ci lasciamo con rabbia».
Tutto molto razionale.
«Beh, quando ci sono delle crisi si soffre, si soffre tanto e si soffre tutti. Ci sono cose che vanno risolte e poi non è detto... La fine può essere un nuovo inizio».
Quindi non esclude di tornare insieme?
«Ormai ho visto talmente tante cose strane che non escludo niente. Però sentivo che questa era la cosa giusta da fare ora e anche mia moglie ne era convinta. Un tempo avrei tergiversato, rimandavo molto le cose, ora sono più risoluto. Da febbraio del resto la mia vita è cambiata, e non c’entra il disco, né la separazione...».
Che cosa è successo?
«A mio figlio Hilo è stata diagnosticata la sindrome di Kawasaki, che, per uno come me che ama le Harley-Davidson, è già una cosa orribile. È una malattia rara e ancora abbastanza misteriosa, in Occidente colpisce 14 bambini su 100 mila: si manifesta con una vasculite, una forte infiammazione dei vasi sanguigni medio-piccoli. Le conseguenze possono essere gravissime, dal trapianto di cuore fino all’ictus. Dopo una settimana in ospedale vedere tuo figlio di quattro anni e mezzo con febbre altissima e convulsioni, e non c’è niente che tu possa fare, ti fa ripensare alla tua vita. Ora è guarito e sotto controllo, ma da allora è tutto cambiato».
In che modo?
«Da una parte mi ha liberato: prima ero iperprotettivo, ora ho capito che non ha alcun senso precludersi delle esperienze per un falso istinto di preservazione della salute di tuo figlio quando poi capita una malattia che non sai nemmeno cos’è e si può morire dall’oggi al domani. Faccio più cose con lui. Mi sono tolto la soddisfazione di farmi una bella vacanza insieme, negli Stati Uniti. E, ora che finalmente ha cinque anni, non vedo l’ora di portarlo in giro in moto. Ho capito che bisogna vivere, che non c’è molto tempo, e che quello che abbiamo non va sprecato».
È per questo che il libro è dedicato a lui, «il miglior compagno di viaggio che potessi trovare»?
«Sì. Stare lontano da mio figlio, magari per il tour, mi disturba. Vorrei sempre stare con lui. Ma capisco anche che non ha senso essere così eccessivi».
La malattia di suo figlio non ha riavvicinato anche lei e sua moglie?
«Noi come genitori siamo unitissimi, abbiamo sempre funzionato. È che ci siamo allontanati come partner. E forse possiamo essere straordinari genitori, un’ottima squadra, anche se la relazione sentimentale è finita. Ma anche lì: la vita è strana. Ci sono dei momenti in cui è quasi necessario allontanarsi per mettere a fuoco che cosa si vuole, per noi è uno di questi. La coesistenza forzata non ti consente di capire se è ora di cambiare strada o di risceglierti».
Una curiosità: il figlio di un fiorista, i fiori, alle donne, li regala?
«Sì e no. Da ragazzo era meglio evitare: se li portavo io sembrava scontato, avendo un negozio a disposizione. Non solo: sono cresciuto detestando i fiori, perché odiavo tutto il lavoro che c’è dietro un fiore reciso e non volevo farlo. Però poi alcune cose le ho scoperte grazie ai fiori. Amo le Hawaii grazie agli anthurium, che arrivavano in scatole di cartone, avvolti in un giornale locale: non li guardavo ma leggevo l’Honolulu Advertiser. E sognavo l’America. Cosa che mi ha insegnato che non solo le sfighe succedono all’improvviso. Anche le cose belle arrivano nel modo più insperato».

P.S. Non c’entra. In Rete molti si chiedono se è vero che Mauro Repetto fa Pluto a Disneyland. No. Aveva iniziato con un travestimento da cowboy, in effetti. Ma poi il direttore di Disneyland Paris lo ha messo a organizzare gli eventi esterni, tipo i compleanni degli sceicchi che passano di lì. Ormai, come dice Max, «è un pezzo grosso».