Notizie tratte da: Eva Cantarella, Luciana Jacobelli # Pompei è viva # Feltrinelli 2013 # pp. 218, 16 euro., 9 ottobre 2013
Notizie tratte da: Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Pompei è viva, Feltrinelli 2013, pp. 218, 16 euro
Notizie tratte da: Eva Cantarella, Luciana Jacobelli, Pompei è viva, Feltrinelli 2013, pp. 218, 16 euro.
(vedi anche biblioteca in scheda
e libro in gocce in scheda 2252648 e 58b3ed107922a)
• Secondo la tradizione, il 24 agosto del 79 d.C. Pompei morì. Quel giorno, il Vesuvio improvvisamente ruttò un’enorme quantità di lapilli, lava e gas velenosi che distrussero per sempre la città, insieme alle vicine Ercolano, Stabia e Oplontis. (pag. 9)
• Diciassette anni prima, nel 62 d.C., un forte terremoto aveva provocato il crollo o il danneggiamento di molti edifici, alcuni dei quali ancora in restauro. (pag. 9)
• Eruzione del Vesuvio […] L’ultima eruzione aveva avuto luogo prima che Pompei fosse fondata, nel VII secolo a.C. (pag. 9)
• […] sperando di proteggersi dai lapilli con dei guanciali legati sul capo, Plinio [il Vecchio] e gli amici uscirono all’aperto, dove, benché fosse l’alba, era calata l’oscurità più cupa. […] surges, nubi gassose caratterizzate da elevata temperatura e velocità […] I surges proseguirono la loro corsa violenta e distruttiva arrivando a Stabia e uccidendo per soffocamento Plinio il Vecchio. (pp. 11-14)
• Gli scavi […] Goethe li visitò nel 1787. (p. 19)
• Borbone suoi successori Ferdinando e Francesco II guardarono a Pompei soprattutto come a un luogo di svago ove portare ospiti illustri che venivano rallegrati e stupiti assistendo a scavi preparati ad hoc nei quali si fingeva di ritrovare reperti in realtà già precedentemente recuperati. (p. 20)
• Dal 1997 Pompei è Patrimonio dell’umanità. (p. 23)
• Dal momento della sua scoperta, Pompei divenne meta obbligata del viaggio che i giovani della nobiltà soprattutto inglese e francese compivano in Italia, il cosiddetto Grand Tour (da cui derivano le parole “turismo” e “turista”). (p. 23)
• La conservazione pressoché intatta di una città romana, ivi compresi i suoi abitanti, ispirò molti scrittori, che vi ambientarono i loro fortunati romanzi, come Arria Marcella di Théophile Gautier (1852), la Gradiva di Wilhelm Jensen (1903) e il notissimo The Last Days of Pompeii di Edward Bulwer-Lytton, pubblicato nel 1834. (pp. 23-24)
• I Romani avevano infatti diversi nomi per indicare le donne di facili costumi. I termini più comuni erano meretrix e lupa. Il primo, derivante dal verbo merere, implica il guadagno ottenuto attraverso una prestazione d’opera. Meretrix, comunque, non sembra indicare una prostituta qualunque, bensì una cortigiana, esperta, oltre che di arti amorose, anche di musica, danza e canto. Lupa, al contrario, è la prostituta di infima categoria: da qui il nome lupanare. Ma la varietà terminologica del latino in questo campo è assai vasta. Esistevano anche la fornicatrix, colei che si prostituiva sotto i ponti (fornices); la bustuaria, colei che si prostituiva presso i cimiteri, ove erano i busti in marmo dei defunti; la circulatrix, passeggiatrice, che doveva vagare alla ricerca di possibili clienti ecc. (p. 25)
• […] poteri di un paterfamilias […] Come in tutto il mondo romano, anche a Pompei il neonato, subito dopo il parto, veniva deposto per terra ai piedi del padre. Se questi lo sollevava (nel gesto detto tollere o suscipere liberos) il neonato entrava a far parte della famiglia; in caso contrario veniva “esposto” (exponere, mettere fuori), vale a dire abbandonato alla sua sorte. Ma quel che rendeva la patria potestas un istituto del tutto particolare era il fatto che il potere sui figli non cessava al compimento della loro maggiore età (come nei diritti moderni e negli altri diritti antichi). Esso durava finché il pater era in vita, quale che fosse l’età dei figli. (p. 29)
• Definito dal giurista Modestino “consorzio di tutta la vita”, il matrimonio, nel mondo romano, era in realtà assai spesso un’unione destinata a durare un periodo limitato di tempo. Soprattutto in età imperiale, infatti, molti matrimoni finivano con un divorzio, per essere seguiti, in particolare nelle classi alte, da secondi, terzi e a volte ulteriori matrimoni.
Il matrimonio era riservato, salvo speciali concessioni, ai cittadini romani di età pubere (quindi maggiorenni: dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini) ed era solennizzato da cerimonie che iniziavano al mattino, con la presa degli auspicii e il compimento dei sacrifici. Quindi, nella casa della sposa veniva offerto un banchetto, e a sera, al lume delle torce, questa veniva accompagnata in processione nella casa del marito (in domum deductio), mentre gli amici dello sposo cantavano canzoni che esaltavano la sua virilità e gettavano sugli sposi delle noci, come augurio di fecondità. Infine, giunta nella nuova casa, la sposa ne varcava la soglia sulle braccia del marito e offriva agli dèi acqua e fuoco. (p. 32)
• Perché il matrimonio esistesse, in età classica, il diritto romano richiedeva solo che due persone fornite della capacità matrimoniale (cittadinanza romana e maggiore età) stabilissero e mantenessero una convivenza accompagnata dall’intenzione di essere marito e moglie (maritalis affectio). Se e quando questa veniva meno, il matrimonio era sciolto. (p. 32)
• Secondo alcuni studi (anche se la verifica di simili dati è molto difficile), circa il venti per cento delle donne della città sapeva leggere e scrivere […]. (p. 37)
• […] l’etimologia di municipium (da munera capere, “assumere gli obblighi”). (p. 40)
• […] candidati (così detti perché nel periodo preelettorale indossavano una speciale toga bianca, candida) […]. (p. 42)
• A differenza dei manifesti odierni, quelli pompeiani, chiamati programmata, non consistevano in documenti di carta, bensì in esortazioni scritte direttamente sui muri: […] Di regola il manifesto, dopo il nome del candidato seguito dall’indicazione della magistratura per la quale si presentava, conteneva l’invito a votarlo, spesso abbreviato in poche lettere come OVF (Oro Vos Faciatis, “vi prego di fare”, cioè di votare). […] Le qualità del candidato, a loro volta, erano spesso sintetizzate in poche lettere come DRP (Dignum Rei Publicae, “degno della Repubblica”); VB (virum bonum, “uomo dabbene”); o per esteso, dignissimus (degnissimo), probissimus (probissimo), optimus (ottimo), e altri aggettivi. (pp. 42-44)
• Nel mondo romano l’avvocatura non era una professione retribuita. Era una funzione civile, che per legge (lex Cincia, del 204 a.C.) doveva essere esercitata gratuitamente (Tac., Ann., 1, 5, 3). […]. Solo a partire dall’avvento del principato l’avvocatura si separò dal complesso dell’attività politica per diventare, poco alla volta, una vera e propria professione, per il cui esercizio l’avvocato poteva chiedere un compenso in danaro; anche se, come stabilì l’imperatore Claudio, questo non doveva essere superiore a 10.000 sesterzi (Tac., Ann., XI, 7, 8). (pp. 45-46)
• La terra attorno a Pompei produceva frutta e verdura di ogni genere: Columella ricorda la pregiata qualità del cavolo e della cipolla di Pompei (De re rust., X, 130-135, XII, 10, 1) e Catone loda i fichi di Ercolano (De agric., VIII, 1). Ma la vera ricchezza della zona era costituita dai grandi raccolti di uva e di olive. A Pompei e nei dintorni si coltivavano diversi ceppi di vite: l’Amineo (Columella, III, 2, 10; Plinio, Nat. Hist., XIV, 22), la Pompeiana (Plinio, Nat. Hist., XIV, 38), la Vennuncula e l’Holconia (Plinio, Nat. Hist., XIV, 34 e 35); i vini prodotti erano il Vesuvinum o Vesvinum, di qualità eccellente, e il Pompeianum, vino famoso ma che secondo Plinio migliorava solo invecchiando ed era causa di mal di testa (Plinio, Nat. Hist., XIV, 70). (p. 47)
• Ai pompeiani piaceva bere e non ne facevano mistero, come rivela un graffito nel quale si legge: Avete, utres sumus (“Salute! Noi beviamo come otri”). (p. 48)
• La lavorazione della lana grezza […] le vesti erano lavate e, se bianche, candeggiate. Tra le sostanze usate per il lavaggio, un posto importante aveva l’urina umana e animale (particolarmente ricercata e costosa quella del cammello) (Plinio, Nat. Hist., XVII, 46; XVIII, 66, 91, 174). (p. 49)
• Il pane era anche nell’antichità un alimento di base. Era però particolarmente duro a causa di farine di scarsa qualità e dell’insufficienza del lievito, che conservato troppo a lungo finiva per inacidire. Per queste ragioni il pane raramente veniva mangiato fresco; lo si consumava piuttosto intinto nel vino, nell’olio o nella minestra. […] C’erano poi pani di forme diverse, come quella a cui allude Marziale in un epigramma ove rimprovera a Lupus di permettere alla sua amante di ingrassare mangiando pani dalle forme oscene (IX, 2). (pp. 53-54)
• Il giorno di mercato a Pompei era il sabato. (p. 54)
• Ma le principali divinità familiari erano i Penates (Penati) e i Lares (Lari), protettori della casa e dei membri della famiglia. In loro onore si facevano in ogni occasione piccole e grandi offerte. Quotidianamente, per esempio, poiché si riteneva che abitassero nei pavimenti, si offrivano loro le briciole del cibo caduto a terra durante i pasti, che per questo non venivano spazzate via. (p. 61)
• L’amuleto più diffuso a Pompei era il fallo eretto, simbolo della potenza virile e della fertilità. Rappresentato in una grande quantità di graffiti e bassorilievi, il fallo ornava le case e gli angoli delle strade della città. (pp. 61-62)
• L’estensione della casa o della villa costituisce un segno distintivo delle classi più abbienti […] Alcune case raggiungono così dimensioni davvero eccezionali, come la Casa del Fauno o quella di Pansa, che coprono ciascuna una superficie di circa 3000 metri quadri. (p. 70)
• Nell’arco della giornata i Romani consumavano tre pasti: la colazione del mattino, detta jentaculum, a base di una tazza di latte o acqua, di un biscotto intinto nel vino, oppure di frutta e formaggio; il prandium, che si consumava verso mezzogiorno e consisteva in un rapido pasto freddo, in genere resti della cena del giorno precedente, oppure da verdure, uova, pesce, funghi; spesso i pasti erano consumati in piedi. Infine c’era la cena (cena), il pasto principale della giornata, che nelle case dei ricchi si svolgeva in un ambiente lussuoso. (p. 87)
• La città di Pompei è circondata per tutto il suo perimetro da mura (km 3,2 circa). […] La più antica cinta muraria, risalente al VI secolo a.C., fu realizzata in blocchi di pappamonte (una tenera pietra tufoide-vulcanica di colore grigio-nerastro) […]. (p. 92)
• Le strade di Pompei hanno larghezze differenti: via dell’Abbondanza, il decumanus maximus, è larga 8,47-8,53 metri, mentre via Stabiana, il maggiore dei cardini, è larga fra i 7,15 e i 7,47 metri; ma esistono strade molto più strette […] (p. 97)
• I “pappagalli”. Camminare per le strade affollate di Pompei era complicato non solo a causa del traffico. A volte chi passeggiava o semplicemente si recava da un luogo all’altro veniva molestato a scopo sessuale. Le strade delle città erano infatti sin da allora frequentate da uomini che seguivano le ragazze bisbigliando complimenti e facendo loro offerte più o meno osé (e più o meno ben accette): come diremmo oggi, dei “pappagalli”. A Roma, la frequenza di questo comportamento era tale che il pretore urbano era stato indotto (già nel II secolo a.C.) a emanare un editto contro coloro che per strada avessero molestato le donne oneste, nonché (dato che i Romani non disdegnavano qualche avventura con i bei ragazzi) i giovani praetextati, vale a dire i ragazzi che indossavano ancora la tunica bianca bordata di porpora (praetexta), riservata a chi per la giovane età non aveva ancora la capacità politica. L’editto specifica anche quali erano i comportamenti molesti puniti: la adsectatio, che consisteva nel seguire in silenzio ma con insistenza l’oggetto del corteggiamento; la appellatio, che consisteva nel rivolgere alla donna o al ragazzo parole blande e suasive (blanda oratio), e infine la comitum abductio, vale a dire l’allontanamento della “scorta” che accompagnava per strada donne e praetextati, a loro tutela. (p. 99)
• […] le fontane pubbliche, dove l’acqua fluiva giorno e notte […] Al fine di fronteggiare le necessità della popolazione, le fontane sono poste a una distanza che varia fra i settanta e gli ottanta metri l’una dall’altra […]. (p. 104)
• Il termine latrina o lavatrina deriva dal verbo latino lavare, e infatti in epoca arcaica la latrina era un luogo ove ci si lavava. (p. 105)
• La latrina del Foro […] poteva accogliere fino a venti persone. (p. 106)
• A Pompei le latrine annesse alle terme conservano una certa dignità estetica: nella latrina delle Terme Suburbane, per esempio, vi è la raffigurazione della Fortuna ritta presso un altarino, con un timone nelle mani e un globo ai suoi piedi. […] Su una di queste pitture con la Fortuna, proveniente dalla taberna IX, 7, 22 e attualmente al Museo Nazionale di Napoli, vi è l’iscrizione CACATOR CAVE MALUM che sovrasta l’uomo in atto di defecare, e che è stata interpretata come ammonimento ai domestici a non usare luoghi diversi dalla latrina per soddisfare certe esigenze fisiologiche. (p. 106)
• […] lanista. Questi era un impresario gladiatorio professionista, che acquistava, vendeva e infine “affittava” i suoi gladiatori a chiunque volesse organizzare uno spettacolo. (p. 108)
• Dai graffiti apprendiamo quanto i gladiatori fossero amati dal pubblico, soprattutto quello femminile, […] Il trace Celado sostiene di essere desideratissimo dalle ragazze (suspirium puellarum Celadus thraex, CIL IV, 4379); il reziario Crescente scrive di essere “il medico notturno delle ragazze” (Cresces retiarius puparum nocturnarum... medicus, CIL IV, 4353). (p. 109)
• In epoca repubblicana i gladiatori avevano un abbigliamento simile a quello dei militari, ma da Augusto in poi vennero divisi in vere e proprie classi gladiatorie in base al tipo di armatura indossata e alla modalità di combattimento. Il retiarius era armato di tridente e di una rete, con cui cercava di immobilizzare l’avversario, che poteva essere il murmillo o il secutor. Quest’ultimo aveva una spada, un lungo scudo rettangolare e un elmo piccolo e arrotondato, privo di sporgenze per non concedere appigli alla rete dell’avversario. L’oplomachus prendeva il nome dal grande scudo che lo proteggeva; il dimachaerus combatteva con due coltelli; il sagittarius usava come
armi l’arco e le frecce; il murmillo armato di spada e lancia si difendeva con uno scudo rettangolare; il thraex aveva un piccolo scudo di forma quasi quadrata, due alti gambali e una spada corta e ricurva (sica); l’essedarius combatteva su un carro da guerra. (p. 110)
• I graffiti, infatti, accanto al nome dei gladiatori riportano l’esito dell’incontro: la lettera V indica la vittoria (vicit); M sta per missus, ossia ha perso ma è stato graziato; P indica invece la morte (perit). (pp. 110-111)
• Per la tragedia e per la commedia venivano impiegati tipi diversi di maschere: la maschera tragica era generalmente caratterizzata da una pettinatura molto rialzata sulla fronte (onkos); quella comica, da una pettinatura arrotolata con o senza boccoli; i vecchi e gli schiavi erano spesso calvi, mentre i giovani intraprendenti erano ricci e biondi. Esistevano anche maschere femminili, con capelli lisci oppure crespi o con boccoli […] (p. 114)
• Fra i giochi d’azzardo i più diffusi, gli astragali e i dadi. Gli astragali erano ossicini facenti parte della zampa di un ovino. Solitamente per giocare se ne impiegavano quattro o cinque; a ciascuna delle facce, diverse per conformazione, era attribuito un valore convenzionale (p. 122)
• Per i Romani le prostitute svolgevano una fondamentale funzione a difesa dell’ordine morale, consentendo agli uomini le loro libertà e garantendo che le donne “oneste” fossero veramente tali. […] La prostituzione dunque non era considerata un crimine […]. Attraverso i graffiti pompeiani le prostitute parlano in prima persona: esprimono apprezzamenti sui loro clienti, si fanno pubblicità indicando specializzazioni e tariffe. Queste ultime vanno da un minimo di due assi (l’equivalente di un boccale di vino) fino a sedici assi. (pp. 125-126)
• L’etica sessuale romana non riprovava, di per sé, che due uomini avessero rapporti sessuali fra loro. Quel che veniva disapprovato era che un uomo assumesse un ruolo sessualmente passivo. La virilità, a Roma, si identificava infatti con l’assunzione del ruolo sessuale attivo, non importava se con donne o con uomini. Colui che sottometteva un altro uomo, dunque, teneva un comportamento giudicato normale. (p. 126)
• L’Anfiteatro poteva accogliere circa ventimila spettatori. (p. 194)