Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 9/10/2013, 9 ottobre 2013
QUEL CHE RESTA DI TILLER THE KILLER
NON LEGGEVO QUEL NOME DA QUATTRO ANNI, da quando chi lo portava morì ammazzato. Non ero neppure sicuro che fosse proprio lui, sul cartellone. Era il titolo di un documentario proiettato al Lincoln Center di New York: After Tiller. Ma in America, come nella mia memoria, c’è un solo Tiller. George Tiller. Il dottor Tiller. Tiller the killer. Il medico che praticava aborti al terzo trimestre di gravidanza, anche all’ultimo mese. O commetteva infanticidi legalizzati. Dipende dai punti di vista: dottore o assassino.
L’HO CONOSCIUTO. Era il 1997. Ero a Wichita, Kansas. Un posto senza storia. Uno che ci viveva mi disse, con un certo orgoglio: «Qui è nata Pizza Hut». Poi c’era Tiller. Ho visto la sua villa sulla collina, così simile a quella immaginata da Francesco De Gregori per il medico abortista della canzone Dr. Dobermann. La sua clinica, protetta da guardie private e filo spinato. La tranquilla paura nei suoi occhi: «Chiunque può essere il mio carnefice: il portalettere, il pony express, il prete». L’hanno ammazzato in chiesa. Poi hanno festeggiato ringraziando dio.
Mi chiedo come si possa fondare un movimento per la vita e poi uccidere una persona. Per salvarne altre mille, sarebbe la risposta. Dovrebbe contare il principio, non la matematica. E se crei un martire, sbucano altri quattro a continuare la sua opera. Come dimostra After Tiller: ci sono quattro medici che praticano aborti al terzo trimestre, nei 9 Stati in cui è permesso. I loro interventi sono l’1 per cento del totale, ma significa qualche migliaio l’anno.
RICORDO UNA DELLE SEGUACI DI TILLER. Quando entrai nel suo ambulatorio era stanca. Disse: «Ho operato tutto il giorno, mi è venuta fame». Non commentai il rapporto di causa-effetto. Andammo a una tavola calda lì vicino. Ordinò ali di pollo. Il collega italiano che viaggiava con me, incapace di trattenersi, fece una delle peggiori battute della storia. Le disse: «Sai, comincio a sentire per te un’attrazione fetale». Lei indicò un monumentale nero che stava alla porta: «Vedi la mia guardia del corpo? È anche mio marito. Ogni giorno ricevo un proiettile in busta. Prima o poi lo riceverò in testa, immagino. Nonostante lui. Chi lavora con Tiller è nel mirino di gente pazza».
Vedo follia da tutte le parti. A essere precisi, da entrambe le parti. Tiller mi mostrò una foto: due genitori che avevano scelto l’aborto all’ottavo mese reggevano in braccio il loro bambino morto. Anche lui lo chiamava «baby», bambino, non feto. Sosteneva che dirgli ciao e al tempo stesso addio era un modo per superare rimorsi e rimpianti, un’estrema riconciliazione. Consegnava alla mancata madre una copia di quella foto, insieme con una «scatola della memoria».
I suoi nemici in mia presenza giurarono che l’avrebbero ucciso e l’hanno fatto. Loro mi fecero invece vedere un filmato, creato in studio, che mostrava la fase più traumatica della procedura. Un lungo ago penetra nel corpo della donna e infilza il cuore del bambino. Poi, ore dopo, in seguito a contrazioni indotte, lei partorisce il cadavere. È crudo leggerlo, lo so; immaginate vederlo. Immaginate subirlo.
NEL DOCUMENTARIO, che sta chiaramente dalla parte dei discepoli di Tiller, si mostrano prevalentemente casi di aborti per malattie e malformazioni gravi diagnosticate in ritardo. Ma ci sono anche molte vicende di altro tipo: soprattutto minorenni che hanno dissimulato la gravidanza finché è stato troppo tardi. In una scena molto forte la dottoressa dice a una ragazza: «Hai tre scelte e fanno tutte schifo: tenere il bambino che non vorresti e dargli una pessima vita, darlo in adozione e starci male per sempre, liberartene e sapere che lo rimpiangerai. Scegli quella che ti fa meno male». Lei opta per l’aborto.
Nella metropolitana di New York ci sono cartelli che mostrano un bambino triste e la scritta: «Non avrà istruzione perché sua madre è adolescente, l’87 per cento dei figli nati da una ragazza troppo giovane non ha un futuro». Ma all’ottavo mese non è troppo tardi per scegliere? Tiller sosteneva: «Il corpo delle donne sa cose che neppure i medici sanno».
SPESSO NON so da che pane stare, lo ammetto. Le mie idee sono state tradite da persone in cui non mi riconosco. Un americano tranquillo, il romanzo di Graham Greene, mi ha insegnato che a un certo punto bisogna scegliere, spogliandosi dell’illusione della neutralità. In questa storia mi sembra di avere di fronte due schieramenti di fanatici. Fuori dalle cliniche, persone sgraziate pregano in nome della vita a tutti i costi, perché altri possano essere ugualmente miserabili. Perfino la loro gentilezza è violenza Dentro, medici che vogliono estendere la soglia del libero arbitrio oltre i limiti del tempo scaduto, con ostinazione mascherata da solidarietà. Per quanto cerchino di mostrarsi partecipi, hanno un siderale distacco. Annoto: nessuno di loro ha figli. Poi penso: strano, neppure in sogno sono mai stato padre, neppure nelle visioni distorte dal desiderio: sotto quanti strati l’ho sepolto?
Il giorno prima di scrivere questo articolo mi telefona il mio caro amico, editore, avvocato. Lui e sua moglie sono due delle persone che rendono abitabile questo pianeta e accessibile il giorno che viene. Hanno adottato una bambina cambogiana e mi annunciano con trepidazione che stanno partendo per la Thailandia, dove riceveranno il secondo figlio.
Andrà tutto bene, andrà tutto a posto. Una cosa alla volta, una persona alla volta.