Gabriele Beccaria, la Stampa - Tutto Scienze & Salute 09/10/2013, 9 ottobre 2013
“LA PARTICELLA CHE CAMBIA TUTTO”
Peter Higgs. E chi non ne ha sentito parlare almeno una volta? Ma per François Englert è un’altra storia: chi è costui?
Professoressa Fabiola Gianotti, lei ha guidato uno degli esperimenti al Cern di Ginevra con cui è stato individuato il bosone mezzo secolo dopo essere stato teorizzato: come mai questi destini agli antipodi? La fama assoluta al fisico britannico e un’ombra perenne sul collega belga?
«In realtà è solo un caso. I contributi di Englert sono stati altrettanto importanti di quelli di Higgs. Però, fu un altro grande fisico, Stephen Weinberg, che in un articolo attribuì per errore il bosone al solo Higgs. E così si diffuse quello che passò come il “modello di Higgs”, anche se tra noi fisici si è sempre continuato a parlare correttamente di “modello Brout-Englert-Higgs”».
E allora ripartiamo proprio dall’invisibile e ormai ingombrante bosone, la «particella di Dio»: come lo spiega a chi non sa nulla di fisica?
«E’ molto speciale e diversa dalle altre. Fino al 4 luglio dello scorso anno si conoscevano 16 particelle elementari, cioè che non possono essere scomposte. Il bosone che abbiamo individuato al Cern di Ginevra è la numero 17. Ci permette di capire l’origine delle masse delle altre particelle e anche di spiegare perché alcune - come il fotone - la massa non ce l’hanno affatto e sono, invece, pura energia. Sembra una questione astrusa, ma non lo è».
E perché?
«Se le particelle non avessero massa oppure ne avessero una diversa da quella che hanno, gli atomi non potrebbero stare assieme e di conseguenza non ci sarebbe la materia ordinaria e non esisterebbero i componenti chimici che danno vita all’Universo nella forma in cui lo conosciamo».
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Peter Higgs. E chi non ne ha sentito parlare almeno una volta? Ma per François Englert è un’altra storia: chi è costui?
Professoressa Fabiola Gianotti, lei ha guidato uno degli esperimenti al Cern di Ginevra con cui è stato individuato il bosone mezzo secolo dopo essere stato teorizzato: come mai questi destini agli antipodi? La fama assoluta al fisico britannico e un’ombra perenne sul collega belga?
«In realtà è solo un caso. I contributi di Englert sono stati altrettanto importanti di quelli di Higgs. Però, fu un altro grande fisico, Stephen Weinberg, che in un articolo attribuì per errore il bosone al solo Higgs. E così si diffuse quello che passò come il “modello di Higgs”, anche se tra noi fisici si è sempre continuato a parlare correttamente di “modello Brout-Englert-Higgs”».
E allora ripartiamo proprio dall’invisibile e ormai ingombrante bosone, la «particella di Dio»: come lo spiega a chi non sa nulla di fisica?
«E’ molto speciale e diversa dalle altre. Fino al 4 luglio dello scorso anno si conoscevano 16 particelle elementari, cioè che non possono essere scomposte. Il bosone che abbiamo individuato al Cern di Ginevra è la numero 17. Ci permette di capire l’origine delle masse delle altre particelle e anche di spiegare perché alcune - come il fotone - la massa non ce l’hanno affatto e sono, invece, pura energia. Sembra una questione astrusa, ma non lo è».
E perché?
«Se le particelle non avessero massa oppure ne avessero una diversa da quella che hanno, gli atomi non potrebbero stare assieme e di conseguenza non ci sarebbe la materia ordinaria e non esisterebbero i componenti chimici che danno vita all’Universo nella forma in cui lo conosciamo».
E quindi non ci saremmo nemmeno noi?
«Esatto. Oppure esisteremmo in modi diversi. Ecco il motivo per cui nel bosone è contenuta la chiave per capire gli inizi e l’evoluzione dell’Universo stesso».
Trovato il bosone, il lavoro con il super-acceleratore «Lhc» come continuerà?
«Dal 4 luglio fino alla fine dell’anno scorso abbiamo registrato una quantità di dati che è un fattore 4 più elevato di quello in nostro possesso in origine. Ora misureremo le caratteristiche di questa particella con maggiore precisione e continueremo ad affrontare le domande fondamentali per le quali Lhc è stato concepito, come, per esempio, l’origine della materia oscura e la simmetria tra materia e antimateria».
Tra le domande c’è l’origine del cosmo, il «Big Bang»?
«Assolutamente sì».
Che cosa significa che riuscite a «vedere» la particella?
«Nell’enorme anello sotterraneo di Lhc avvengono delle collisioni tra fasci di protoni a velocità prossime a quelle della luce: si scontrano in quattro punti con quattro esperimenti, tra cui “Atlas” e “Cms”, quelli che hanno permesso di dare l’annuncio dell’esistenza del bosone. Quando se ne produce uno, questo si disintegra immediatamente in altre particelle che conosciamo e che possiamo studiare. In particolare in due fotoni, proprio quelli comuni alla vita di tutti i giorni, visto che sono i quanti della luce. Sono loro a interagire con gli apparati sperimentali e quindi possiamo osservarne lo spettro e misurare sul cosiddetto “rumore di fondo” un picco a una massa ben precisa».
Si tratta di una quantità enorme di dati.
«Sì. Decine di petabyte. Come una pila di 20 km di dvd».
Tornando a questa giornata storica, dica la verità: un po’ di delusione non l’ha provata? Higgs ed Englert non avrebbero dovuto condividere il Nobel con le donne e gli uomini del Cern?
«Non so se il premio può essere dato anche alle istituzioni, oltre che alle persone. Noi siamo molto felici che gli esperimenti “Atlas” e “Cms” siano menzionati nella motivazione, perché così si riconosce l’importanza della nostra scoperta al Cern».
Che significa anche molta scienza italiana, giusto?
«Certamente. Un gran bel pezzo di nostra scienza. Tra le migliaia di scienziati al lavoro con Lhc ce ne sono 600 italiani».
Professoressa, quando l’annuncio non arrivava e c’è stato il ritardo di un’ora avete temuto un po’?
«Il ritardo ha fatto crescere l’emozione!».