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 2013  ottobre 09 Mercoledì calendario

“A PRINCETON NON SMETTEVO DI TREMARE”

[Peter Higgs] –

La ritrosia di Peter Higgs è proverbiale. Ha evitato i giornalisti persino in occasione dell’annuncio della scoperta del «suo» bosone, l’anno scorso. Quel giorno, pressato dai media di tutto il mondo, accettò di parlare solo con «La Stampa» e con la testata svizzera «Le Temps». Ma l’emozione lo soverchiava e non era il momento per ripercorrere il suo amore per la fisica e gli interminabili anni di attesa, mentre i colleghi si dannavano dietro l’imprendibile particella. Tutto questo l’ha raccontato, invece, la scorsa primavera, con enorme generosità di dettagli ed emozioni. A premere per l’incontro era stata Liliana Cavani, la regista appassionata di scienza e affascinata dall’epopea della caccia al bosone. Lei cercava elementi per un suo film, io, da un lato, inseguivo il sogno di una lunga conversazione con Peter Higgs e, dall’altro, aiutavo l’artista nei passaggi più impervi del viaggio nella scienza.
Higgs ci aveva dato appuntamento nella sua Edimburgo in una sala della Royal Society. Ci ha salutato scuotendosi la neve dal cappotto, con il suo sorriso allegro e timido. Poi, per oltre tre ore abbiamo ascoltato il racconto di una straordinaria avventura intellettuale e umana.
Professore, lei oggi è un’icona della fisica, ma com’è iniziata la sua passione per la scienza?
«Penso di aver scoperto molto presto che sarei divenuto un fisico teorico: già al liceo mi interessavano la fisica di base e la matematica. Un giorno, poi, scorrendo la lista degli ex allievi illustri della mia scuola, scoprii che 25 anni prima era stata frequentata da Paul Dirac, uno dei padri della meccanica quantistica. Incuriosito, studiai i suoi lavori. Poi mi iscrissi a Fisica».
All’epoca della sua laurea Paul Dirac era a Cambridge. Lei pensò di andare a lavorare con lui?
«Naturalmente. Dopo la laurea dissi al mio professore che volevo occuparmi di fisica delle particelle, ma che l’unica persona di cui avevo sentito parlare nel campo era Dirac. Lui mi rispose che nessuno riusciva a lavorare con Dirac: era un solitario e non accettava studenti».
Poi che successe?
«In seguito, quando decise di essere un po’ più costruttivo, mi spiegò che c’era un altro fisico teorico delle particelle, noto per accogliere gli studenti rifiutati da Dirac. Era Nicholas Kemmer».
Dopo la specializzazione lei si stabilì a Edimburgo, dove si trovava Kemmer. Com’era l’atmosfera?
«Molto bella. Ero anche segretario di un comitato di scienziati impegnati per il disarmo nucleare e incontrai molte persone che la pensavano come me. E fra queste la mia futura moglie, che veniva dagli Stati Uniti».
Dal punto di vista scientifico era contento?
«Sì. Kemmer non era molto partecipe della mia attività, ma gli piaceva che nel suo gruppo ci si occupasse di cose diverse e che ciascuno facesse ciò che lo interessava. Ho sempre avuto una mia particolare visione delle cose, non in linea con quella della maggioranza. Anche se non ero riuscito a lavorare con Dirac ne ero influenzato e lui diceva che l’unica cosa che vale la pena fare è concentrarsi sui problemi fondamentali. Già allora la maggior parte della gente preferiva studiare questioni collegate ad applicazioni pratiche piuttosto che grandi temi astratti. Io invece volevo capire come funzionano le cose a livello profondo».
E quali erano gli interrogativi che la interessavano?
«All’epoca la fisica delle particelle attraversava una crisi. La meccanica quantistica, su cui si basavano le teorie più avanzate, stava cadendo in disgrazia, perché tramite questa non si riuscivano a spiegare due grandi problemi: uno era relativo al come stanno insieme le diverse componenti dei nuclei atomici e l’altro riguardava la forza responsabile dei decadimenti radioattivi».
Quando arrivò a ipotizzare l’esistenza del bosone?
«Ho pubblicato i due lavori che mi hanno reso famoso nel 1964, a 35 anni. Il primo era una paginetta in cui facevo un’analisi sostanzialmente matematica. Poiché all’epoca si diceva che gli scienziati europei avrebbero dovuto sostenere le riviste europee pubblicando lì, inviai il mio lavoro a una rivista del Vecchio Continente: “Physics Letters”. Il lavoro venne accettato. Poco dopo scrissi un secondo articolo, sempre brevissimo, che completava il primo, spiegando come le ipotesi matematiche che avevo fatto si applicassero in concreto nella fisica. Questa volta la medesima rivista rifiutò il lavoro, irritandomi molto».
Come mai la rivista che aveva accettato il primo lavoro rifiutò il secondo?
«Credo perché, come al solito, mi ero comportato in modo irrituale. L’articolo era scritto con il linguaggio della meccanica quantistica che allora era fuori moda. Allora aggiunsi dei dettagli, per spiegarmi meglio, e mandai l’articolo a una rivista concorrente degli Stati Uniti che lo accettò».
La fama arrivò subito?
«No. L’anno successivo andai in sabbatico nel North Carolina. Era l’autunno del 1965 e stava per nascere il nostro primo figlio. Mentre mia moglie era dai genitori, io mi dividevo tra il compito di sistemare l’appartamento dove avremmo abitato e la scrittura di un terzo lavoro, in cui spiegavo la mia teoria in modo più esteso».
Anche quello fu un lavoro fortunato…
«Sì. Freeman Dyson, celeberrimo fisico di Princeton, mi mandò un messaggio molto amichevole nel quale diceva in sostanza: “Il tuo lavoro mi ha fatto comprendere delle cose che non avevo capito, perché non vieni a fare un seminario da noi?”. Io andai nel marzo del ’66. Fu un’esperienza terrificante: Dyson era uno dei miei eroi e Princeton aveva una fama unica. Partii in auto. All’uscita dell’autostrada tremavo così tanto che dovetti fermarmi nella corsia di emergenza. Dyson mi accolse cordialmente, ma prima del seminario venni avvicinato da un teorico tedesco, il quale mi disse che doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato nella mia analisi, in quanto contrastava con i calcoli di tre noti scienziati. E, siccome loro non potevano essere in errore, dovevo esserlo io».
E come finì?
«Direi bene: al termine del mio intervento avevo convinto diversi avversari. Il giorno dopo feci un altro importante seminario a Harvard. Anche qui mi attendevano con scetticismo, ma arrivai più rilassato, perché ero già sopravvissuto a Princeton. E fui convincente».
E in seguito?
«In seguito le cose si fecero difficili. Né io né le altre persone che avevano contribuito alla nascita della linea di ricerca sul bosone riuscimmo ad andare molto avanti nelle applicazioni della teoria (n.d.r.: si tratta di Robert Brout, François Englert, Gerald Guralnik, Carl R. Hagen e Tom Kibble). Gli sviluppi si ebbero dopo il ’67 grazie ad altri».
Ma nel frattempo, lei era diventato celebre?
«Divenni veramente famoso nel 1972, dopo una conferenza a Chicago. In quell’occasione un fisico di origine coreana, Ben Lee, fece il punto sullo stato delle conoscenze nel settore in cui lavoravo. Avevo incontrato Lee tempo prima e mi aveva fatto molte domande. Mi ero trovato a dovergli spiegare lo stato dell’arte con un piatto in una mano e un bicchiere nell’altra. Gli avevo raccontato le cose a grandi linee, senza specificare chi aveva ipotizzato i dettagli. Così a Chicago mi attribuì praticamente tutto ciò che aveva a che fare con il bosone. I colleghi non ne furono felici…».
Lei però non si è mai opposto a che il suo nome venisse associato al bosone.
«No, perché di certo ero stato io il primo ad aver attirato l’attenzione di tutti su quella particella nel 1964».
Cosa ha fatto fino alla scoperta del bosone?
«Sono diventato vecchio (ride). In realtà dopo il 1970 per via del fallimento del mio matrimonio ho attraversato anni di crisi. Ho ripreso ad appassionarmi al lavoro solo nel 1975 sulla supersimmetria. Ma presto ho realizzato che le persone più brillanti in quel campo avevano 30 anni meno di me e che le mie ipotesi erano sbagliate. Così ho abbandonato per sempre la fisica delle particelle per dedicarmi a temi più matematici».
È difficile convivere con la celebrità del bosone?
«Lo è soprattutto per il mio nipotino: il primo giorno di scuola si è trovato un poster con la mia faccia appeso in classe».
Mentre parliamo qualcuno ci raggiunge con un plico: sono inviti e messaggi degli ammiratori. La decisione di Stoccolma è la ciliegina sulla torta. Higgs è stato Nobel a furor di popolo fin dal giorno della scoperta del bosone. Forse anche per il suo voler a tutti i costi evitare la celebrità.