Andrea Pasqualetto, Corriere della Sera 09/10/2013, 9 ottobre 2013
IL TACCUINO DEL GEOLOGO SUL VAJONT «CI SARÀ UNA GRANDE FRANA»
Che il monte Toc fosse inquieto, nell’autunno del 1963, lo sapevano un po’ tutti: i progettisti della diga, i sindaci dei paesi e pure la gente del Vajont. I segnali erano visibili a occhio nudo, con quelle strade sempre più crepate, quegli improvvisi smottamenti, quei pini piegati in posizione innaturale sulle pendici sopra il lago. Ma che sotto la montagna ci fosse un vecchio gigante in movimento l’aveva capito forse solo il giovane geologo Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, Carlo, che a lui aveva affidato uno studio di dettaglio della valle. Oltre tre anni prima del disastro, nel giugno del 1960, Semenza scrisse infatti queste righe alla Sade, la società dell’elettricità che aveva realizzato la colossale opera del Vajont: «Un’antica massa di frana, larga circa 2 chilometri e di notevole spessore è presente sul versante settentrionale del monte Toc... ». Il trentaduenne geologo aveva analizzato a fondo il versante e aveva notato le anomalie delle masse rocciose e le strane ondulazioni del terreno. E dopo qualche mese, affiancato dal collega Franco Giudici, aveva concluso che «il monte Toc era già franato in epoca preistorica e può scivolare nuovamente con la creazione del lago artificiale». Così, il geologo nel 1960. «Mio padre aveva scoperto una paleofrana», precisa oggi il figlio Pietro, 46 anni, anche lui geologo.
In quei mesi nel 1960 Edoardo Semenza si era appassionato al suo lavoro, saliva e scendeva la montagna anche più volte al giorno. Fotografava tutto, faceva schizzi, tracciava grafici e, alla fine, calcolò le dimensioni della massa in movimento: due chilometri di larghezza, 200 metri di profondità, un chilometro di altezza, e quantificò pure i metri cubi di terra: 270 milioni. Numeri sorprendenti perché sono gli stessi della frana che tre anni dopo, il 9 ottobre del 1963, finì sul lago del Vajont sollevando la ciclopica onda capace di superare la diga e precipitando a valle per travolgere in pochi minuti Longarone e altri quattro paesi e facendo 1.917 vittime. Ebbene, il taccuino e le foto del geologo sono stati riordinati dai suoi figli per farci una mostra itinerante che racconta il disastro del Vajont come la storia di una catastrofe evitabile. Nonostante tutto. Nonostante cioè l’allarme lanciato e nonostante i responsabili dell’opera l’avessero preso inizialmente in seria considerazione «al punto che venne realizzato un modello idraulico della frana, in scala uno a 200 per vedere l’effetto della caduta di ghiaia e roccia sull’invaso — spiega Pietro Semenza —. Ma tutto ciò non impedì che si consumasse la tragedia». Pietro non punta l’indice su nessuno in particolare ma, in generale, su tutti coloro che decisero di procedere ignorando il rischio che era stato così chiaramente denunciato.
«Bisogna dire che dopo la morte di mio nonno Carlo, il 30 ottobre 1961, mio papà uscì di scena. Io sono quasi certo di una cosa: che se mio nonno fosse rimasto, lui che comandava un po’ tutto, la catastrofe sarebbe stata evitata. Il motivo è semplice: lui credeva più a suo figlio che agli altri». Non che gli altri ignorassero l’esistenza della frana. «No, però minimizzavano». Per esempio, il consulente geologico della Sade, Giorgio Dal Piaz, nel 1958 aveva previsto lo smottamento ma l’aveva giudicato non pericoloso, superficiale. «Non era andato a testare bene tutti i versanti della valle». Anche il professor Leopold Müller, al quale Carlo Semenza aveva affidato la valutazione delle condizioni del futuro invaso, parlò di movimento del tipo «ghiacciaio», cioè lento. Solo Semenza aveva visto la grande frana. E ora, davanti alle pagine di quel giovane appassionato geologo, in molti scuotono la testa.