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 2010  ottobre 08 Venerdì calendario

50 ANNI DI ADELPHI


La parola “adelphiano” può essere letta come un curioso neologismo che sta ad indicare, innanzitutto, uno stile mentale. Molti di noi hanno un debito culturale nei riguardi di questa casa editrice, le cui scelte si sono spesso realizzate in controtendenza rispetto al clima culturale imperante nel paese. Adelphi, nei primi cinquant’anni della sua vita, ha dimostrato di essere una sorta di unicum (gli esperti di marketing dovrebbero, prima o poi, trarne qualche lezione!). L’immagine che più le corrisponde la trovo ne
L’impronta dell’editore: «Che cos’è – scrive Roberto Calasso – una casa editrice se non un lungo serpente di pagine? Ciascun segmento di quel serpente è un libro. Ma se si considerasse quella serie di segmenti come un unico libro? Un libro che comprende in sé molti generi, molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore. Un libro perverso e polimorfo, dove si misura alla poikilía, alla “variegatezza”, senza rifuggire i contrasti e le contraddizioni, ma dove anche gli autori nemici sviluppano una sottile complicità, che magari avevano ignorato nella loro vita».
L’idea che possa esistere una famiglia “degenere” – a un tempo seria e stravagante – popolata da “figli unici” suona paradossale. E perfino incongrua se si pensa a un’editoria che predilige, come è noto, il prêt-à-porter, la serialità e l’omologazione.
Eppure, fu proprio tale “forma” a rendere l’Adelphi una casa editrice diversa dalle altre. Roberto Bazlen – che insieme a Calasso e a Luciano Foà la progettò nel 1962 – intuì per primo le potenzialità del “libro unico”. Cosa aveva in testa questo triestino di cultura tedesca (ma non solo, viste le competenze anche francesi e inglesi) quando immaginò di dare vita a una forma editoriale con pochi esempi cui ispirarsi? Nella sua mente il problema era chiarissimo: un libro scritto da qualcuno che aveva attraversato un’esperienza, per una ragione o per un’altra, unica e che solo lui poteva raccontare e depositare proprio in quell’oggetto cartaceo.
Se moltiplicassimo questo “unico” avremmo come risultato una serie di costellazioni che hanno consentito di realizzare un catalogo straordinario. Ci si può ancora stupire di trovarvi dentro l’edizione critica di Nietzsche e le opere di Croce, Emanuele Severino e Manlio Sgalambro. Ci sono stili di pensiero più lontani? E che dire della letteratura? La cui costellazione racchiude opere che possono sconcertare per la distanza che le separa: Joseph Roth e Georges Simenon, Vladimir Nabokov e Sándor Márai, Cristina Campo e Anna Maria Ortese. Per non parlare del modo in cui l’Adelphi ha inteso costruire la sua biblioteca scientifica. Autori come Oliver Sacks, Douglas Hofstadter, Fritjof Capra, o Gregory Bateson – che non a caso con L’ecologia della mente inaugurò la collana – sono la dimostrazione di come un sapere, generalmente soggetto alla dittatura dell’aufklärung, possa rinascere in maniera sorprendente, attraverso la qualità letteraria del racconto.
Fin dall’inizio la spina dorsale della casa editrice è stata la collana “Biblioteca”. Superato ormai il seicentesimo volume, essa è la rappresentazione perfetta dell’idea che i libri coabitano non solo nella loro affinità, ma soprattutto per il loro tratto spesso dissonante. L’effetto, a volte, disorienta, più spesso sorprende. È come trovare, appunto sotto lo stesse lenzuola, L’unico di Stirner, i Quaderni di Valéry, le meditazioni di Cioran, i romanzi di Kundera o di Gadda, i saggi di Guénon, Il libro del Profeta Isaia o lo Zhuang-zi e chiedersi, poi, quale mano li ha disposti in quel modo. La risposta è nella disinvoltura e nella fisiologia delle scelte. Entrambe definiscono la soglia del pubblicabile che, nel caso dell’Adelphi, mi pare sia piuttosto alta. Tutto in qualche modo è possibile a condizione che viva dentro certe forme. E se la disinvoltura regala uno sguardo aperto e leggero – quasi a suggerire “l’incalcolabile tocco dell’azzardo” – la fisiologia controlla e realizza il respiro di un’opera.
Bazlen e Foà avevano lavorato per Einaudi. Adelphi non si spiegherebbe senza questa esperienza che fu fino agli anni Sessanta essenziale alla crescita e allo sviluppo della nostra cultura. Ciò che l’avventura adelphiana vi aggiunse fu, tra l’altro, la grande determinazione con cui scalpellò tutto quello che sapeva di sociologia e di marxismo. Non perché Marx e gli argomenti sociali non fossero trattabili, ma fuori dal flagello ideologico e dogmatico nel quale erano stati immessi.
Calasso – che della casa editrice è il presidente – ha ricordato che se c’è un secolo dell’editoria questo è il Novecento. Ne sono anch’io convinto. Ma il secolo si è chiuso e parecchie nubi si addensano nel cielo, al punto da rendere difficile la lettura degli astri. Troppa tecnologia? Troppa virtualità digitale? Non lo so, onestamente. Mi resta la sensazione che qualche sensata risposta la si possa ancora cercare nelle poche grandi imprese spirituali che restano.