Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 08/10/2010, 8 ottobre 2010
VAJONT
«Ps. Mi telefona ora il geom. Rossi che le misure di questa mattina mostrano essere ancora maggiori di quelle di ieri, raggiungendo una maggiorazione del 50%!! (cioè da 20 a 30 cm). Si nota anche qualche piccola caduta di sassi al bordo ovest (verso la diga) della frana. Che Iddio ce la mandi buona».
Mezzo secolo dopo, quel «P.s.» dell’ingegner Alberico Biadene in calce alla lettera del 9 ottobre 1963 in cui poche ore prima dell’apocalisse chiedeva al capo-cantiere Mario Pancini di rientrare dalle ferie, fa ancora svegliare di angoscia, certe notti, i sopravvissuti di quella sera in cui l’ondata immensa del Vajont spazzò via Longarone e le contrade intorno.
Iddio non la mandò buona, quella sera. Dice una struggente canzone di Alberto D’Amico: «Xe ‘sta ‘na note che ‘l Signor / ga vudo un palpito de cuor / el monte Toc se ga spacà / el lago in cielo xe rivà…». Ma se il monte venne giù per un palpito di cuore di Dio («si è compiuto un misterioso disegno d’amore», scrisse La Discussione tentando d’arginare le polemiche del Pci contro Sade, la Società adriatica di elettricità padrona della diga), certo diede a tutti il tempo, se solo avessero voluto capire, di fare i fagotti e salvarsi.
Lo denunciò Tina Merlin scrivendo sull’Unità undici mesi prima della catastrofe parole nette: «Una enorme frana di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà un terribile schianto. In quest’ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze». Lo riconobbe tra mille reticenze dei testimoni e mille viltà il processo imbastito all’Aquila che accettò la tesi del «disastro naturale» condannando qualche imputato solo per non avere dato l’allarme disponendo lo sgombero della popolazione. Lo spiegò una quindicina d’anni fa, in una memorabile serata televisiva che il Corriere domani ripropone ai suoi lettori, Marco Paolini, che mise a nudo magistralmente i buchi, le contraddizioni, le assurdità della vicenda. Lo conferma oggi un libro dei geologi Alvaro Valdinucci e Riccardo Massimiliano Menotti scritto nel ‘93 e per vent’anni «deliberatamente rimandato al mittente da chi avrebbe invece potuto e dovuto diffonderlo».
Mettono i brividi, tanti dettagli del volume intitolato Che Iddio ce la mandi buona / La frana del Vajont . Come una lettera dell’ottobre 1948 del professor Giorgio Dal Piaz, che da vent’anni studia la possibilità di costruire lì una diga e davanti alla ennesima richiesta di alzarla ancora di più, di più, di più, scrive: «Confesso che i nuovi problemi geologici prospettati mi fanno tremare le vene ed i polsi». O i dubbi in una nuova relazione di due mesi dopo dove segnala il rischio di uno scoscendimento che «non mancherà di dar luogo, specialmente in conseguenza a fenomeni di svaso, a distacchi e smottamenti più o meno notevoli».
Fatto sta che nel 1957, esausto per le continue richieste ed evidentemente sempre meno convinto della bontà del progetto, il vecchio Dal Piaz scrive all’ingegner Carlo Semenza, il progettista, che proprio non gli riesce di scrivere la relazione finale richiesta quindi ci pensi lui: «Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch’Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice».
E così, accusano i due geologi, «il 15 giugno 1957 il Consiglio superiore, riunito in assemblea generale, esprime voto favorevole» al progetto e la Sade «stravince» grazie a quella relazione «firmata da G. Dal Piaz e compilata da C. Semenza», relazione che Francesco Sensidoni, capo del Servizio Dighe, usa per declamare le virtù della «grandiosa diga del Vajont» che «trova sicure possibilità tecniche di realizzazione date le naturali caratteristiche della valle del Vajont, determinate dal concorso di eccezionali favorevoli caratteristiche morfologiche e geognostiche».
E le cose vanno avanti così, con criminale sciatteria, dall’ideazione al progetto, dalla costruzione della diga al collaudo, dai primi allarmi fino all’ultimo istante. Al punto che, scrivono Valdinucci e Menotti, anche se tutti i segnali «fanno temere il peggio» (parole dello stesso Biadene), solo «alle 21 Dal Prà chiama Biadene per bloccare la strada da Longarone ad Erto» ma anche gli ordini sono un casino. Qualche strada viene bloccata, altre no, la gente resta nei bar a guardare alla tivù il Real Madrid contro il Celtic Glasgow. «Alle 22 l’ultimo contatto telefonico fra Biadene e gli uomini del cantiere, che impotenti scrutano con i riflettori l’enorme massa in movimento inarrestabile. Operai e geometri stanno al loro posto, fanno con scrupolo il proprio dovere e non sanno che saranno i primi a morire».
Solo un paio di settimane fa lo Stato, con mezzo secolo di ritardo, ha chiesto perdono per bocca del ministro dell’Ambiente Andrea Orlando e del capo della Protezione civile Franco Gabrielli a quei bellunesi che furono spazzati via. Per le approssimazioni, i silenzi, i ritardi, la spilorceria del tariffario risarcimenti: «Al genitore per la perdita del figlio unico: 2 milioni; al genitore per la perdita di un figlio con altri 2 fratelli: 1 milione e 500 mila…». Ma prima ancora per la scelta disastrosa di pilotare gli avvenimenti racchiusa in un dialogo teatrale di Paolini: «Ma sì, fate come volete, ma facciamola cadere in qualche modo questa frana. In maniera controllata, magari invasando e svasando acqua rapidamente».
Il sindaco di Longarone Roberto Padrin chiede però un passo in più, e cioè qualche parola da parte di Giorgio Napolitano: «Solo così sarebbero davvero “scuse di Stato”». Potrebbe così ricucire un po’ le ferite lasciate da un suo predecessore, Giovanni Leone, che dopo essere accorso sul pantano del disastro nelle vesti di presidente del consiglio («Oggi Leone si recherà nel Cadore / — sentimenti vivo dolore/ et profonda solidarietà / — pregola recare popolazioni colpite tanto flagello / sensi affettuosi solidarietà», scriverà Roberto Roversi) si schierò da avvocato coi padroni della diga.
Sbagliarono in tanti, allora. Compresi tanti giornalisti straordinari che non seppero cogliere un punto. E cioè che sì, la natura può essere terrificante e «non uno di noi moscerini» resterebbe vivo, come scrisse Giorgio Bocca, se «si decidesse a muoverci guerra». Ma fu determinante il peso degli errori umani. Che troppi, sulle prime, non vollero vedere. Pensando che le accuse ai costruttori, per dirla con Montanelli, fossero solo «una delle solite cacce alle streghe (…) alla ricerca di un capro espiatorio. (…) Mi sbagliavo? Certo. Ma è facile dirlo ora…».
Fu il buio, quella notte. Per ore e ore. Il primo allarme, ricorda Edoardo Pittalis nel suo libro Dalle tre Venezie al Nordest , arrivò solo con un’Ansa alle due meno un quarto: «Nella zona del Vajont e nell’abitato di Longarone un’enorme massa d’acqua è scesa dalla gola in cui si trova la diga e si è abbattuta nella valle…»
Mauro Corona, che viveva a Erto e aveva allora dodici anni, ricorda il rumore: «Hai presente il frastuono che fa un camion di ghiaia quando ribalta il cassone? Ecco: un milione di camion che rovesciano un milione di cassoni di ghiaia». Un compaesano, ha raccontato lo scrittore al Gazzettino , scese quella notte nel buio verso valle per capire cosa fosse successo: «Tornò ore dopo, affranto: “Non vedo le case di San Martino” annunciò, in lacrime, dopo aver ispezionato l’area con la sola fioca luce di una pila tascabile, “ma soprattutto — disse — non riesco più a scorgere le luci di Longarone”».
Solo all’alba la valle si aprì agli occhi inorriditi dei soccorritori: «Sotto di noi era tutto di colore giallo. Una sorta di paesaggio lunare, informe. Nessuno aveva il coraggio di parlare». Mezzo secolo dopo, non si sa ancora esattamente quanti furono i morti. Solo per la metà identificati. Sulla lapide di una vittima senza nome fu scritto: «Diga funesta, per negligenza e sete d’oro altrui persi la vita, che insepolta resta».