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 2010  ottobre 08 Venerdì calendario

SCARONI: ENERGIA CARA, EUROPA SPIAZZATA LA RUSSIA PUÒ ESSERE IL NOSTRO TEXAS


DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK — L’Europa che difende il suo welfare dispendioso, ha costi di produzione delle industrie molto più alti non solo dell’Asia ma anche degli Stati Uniti e l’handicap del più rapido invecchiamento della popolazione, sta trascurando un’altra sfida che rischia di darle il colpo di grazia: quella dell’energia.
«Con la rivoluzione dello shale gas — spiega l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni — perdiamo altro terreno nei confronti degli Usa: il prezzo del gas per le loro industrie è un terzo del nostro, l’energia elettrica la pagano la metà. Se non cambia qualcosa c’è da chiedersi chi investirà nell’area Ue. Il rischio è che le industrie, soprattutto quelle che assorbono molta energia come le aziende petrolchimiche produttrici di piastrelle che ora trasferiscono gli impianti nel Texas, scelgano un altro Paese: cioè l’America dove l’energia costa un terzo, il lavoro il 20% in meno, c’è più flessibilità, c’è il mercato, trovi ampie risorse manageriali e c’è un ambiente “business friendly”. È un grosso problema, ma la politica tarda a rendersene conto. Alcuni giorni fa ne ho parlato al Parlamento europeo di Strasburgo e i miei interlocutori avevano gli occhi sbarrati, erano sorpresi».
Sette del mattino in un albergo di Manhattan. Scaroni sorseggia un espresso dopo una notte breve spezzata, alle tre, da una riunione di consiglio d’amministrazione della Scala, in teleconferenza con Milano.
Come se ne esce? Dobbiamo usare anche in Europa e in Italia la tecnica del “fracking”, l’estrazione di gas e greggio con getti d’acqua e provocando microfratture sotterranee?
«Eni lavora con lo shale gas anche in Europa, ma solo in Polonia e Ucraina. L’estrazione al momento ha aspetti piuttosto invasivi che la rendono problematica in zone densamente popolate: rumore, grande assorbimenti d’acqua, molti residui da smaltire. In Europa Occidentale ci sta provando solo la Gran Bretagna. Se ha successo potrebbe fare da apripista per tutti, ma si parla del medio periodo. Vediamo come va lì. Con l’evoluzione della tecnologia le cose cambieranno: presto speriamo di poter recuperare il 70-80 per cento dell’acqua utilizzata. Vedremo ma non è un discorso attuale».
E allora?
«Allora dobbiamo cercare altre fonti di gas a buon mercato. Certo, anche l’Europa avrebbe bisogno di un Texas. E a me pare che il nostro Texas dovrebbe essere la Russia».
La Russia di Putin col quale lei ha un rapporto solido, ultimo episodio la sua presenza all’incontro tra il presidente russo ed Enrico Letta al G20 di San Pietroburgo.
«È la soluzione più logica. Lasci stare Putin di cui si può essere amici o no. Guardiamo a un orizzonte di dieci o vent’anni, che, quindi, prescinde da lui: la Russia è una fonte quasi inesauribile di energia a basso costo, ha spazi enormi ed è interessata ad avere vicino un’Europa in salute. Le servono mercati di sbocco ma anche competenze, professionalità e imprenditorialità che in Europa abbiamo ma di cui la Russia si è impoverita nel tempo. Le capacità tecniche dell’Europa sono, per Mosca, un’opportunità per continuare ad alimentare lo sviluppo industriale, senza ridursi ad essere solo un produttore di materie prime».
È la nostra unica possibilità?
«Nell’immediato un certo sollievo potrebbe venire anche se ci fosse un forte calo del prezzo del greggio. Se per ipotesi si dimezzasse, a 50 dollari al barile, calerebbe anche il nostro prezzo di approvvigionamento del gas: i nostri contratti “take or pay” coi fornitori sono in genere collegati alle quotazioni del petrolio».
Fin qui le speranze di un calo sono andate deluse.
«È vero, è dipeso soprattutto dai fattori di incertezza e instabilità politica in Medio Oriente, ma le condizioni potrebbero esserci, con l’America che produce di più e quindi compra meno sui mercati mentre in Europa i consumi crollano: in Italia siamo a meno 30% dal 2008, cose inimmaginabili fino a ieri».
Da capo di una multinazionale che tratta coi governi di mezzo mondo e opera in molte delle aree più calde del pianeta, dalla Libia all’Iran, dall’Egitto alla Nigeria, come vive questa fase nella quale la superpotenza globale Usa fa un passo indietro in termini di presenza militare e politica, mentre diventa leader nel mondo dell’energia?
«I due fenomeni sono collegati: se raggiungono l’autosufficienza energetica, per gli Stati Uniti non è più così vitale presidiare tutto il Medio Oriente. È in corso un’evoluzione importante, ma nei rapporti coi governi ancora non registro conseguenze».
Aumentando la produzione, l’America potrà influenzare maggiormente i prezzi?
«Sono partite complesse. L’America aumenta l’offerta mondiale, ma produce a costi piuttosto elevati perché la tecnica del fracking è dispendiosa, circa 50 dollari al barile: Russia e Arabia Saudita che estraggono a costi molto più bassi, avrebbero anche potuto competere con lo shale facendo crollare i prezzi. Non l’hanno fatto perché anche loro finirebbero nei guai: le loro economie sono basate su un livello di introiti che può essere mantenuto solo con prezzi degli idrocarburi relativamente elevati».
L’Eni come vive questa fase di turbolenza? E come vede la ripresa del dialogo tra Usa e Iran, Paese nel quale siete stati sempre molto presenti, ma dal quale vi siete dovuti parzialmente ritirare con l’embargo?
«Complessivamente le cose vanno piuttosto bene, anche in Algeria e perfino in Egitto dove, nonostante la situazione caotica, non abbiamo perso nemmeno un barile di produzione. I problemi vengono dalla Libia e, in parte, dalla Nigeria. Quanto all’Iran, abbiamo bloccato le nuove iniziative ma siamo ancora lì per recuperare i nostri investimenti. Manteniamo i rapporti e dobbiamo essere pronti a rientrare se la situazione si sblocca, sapendo che, se cade l’embargo, gli americani saranno i primi a presentarsi in forze: aziende, governo, un sistema-Paese che si muove compatto. L’Italia non ha la stessa forza d’urto: prima di ritirarci dalle posizioni conquistate bisogna pensarci bene perché poi recuperare è difficile».
Una buona posizione l’avete conquistata nel nuovo Eldorado del Mozambico. Siete leader e come partner avete scelto i cinesi: un altro segno del mondo che cambia?
«No, è una scelta legata alla geografia: i nostri costi esplorativi sono stati inferiori a un miliardo di dollari e abbiamo venduto il 20% ai cinesi per 4,5 miliardi di dollari. E siamo pronti a cedere altre quote, pur restando operatori. Ma penso che venderemo a compagnie asiatiche più che americane perché in Mozambico produrremo gas, e l’Asia è proprio lì davanti».
Insomma una multinazionale in buona salute, se non fosse per i guai in Libia. E magari anche quelli italiani .
«In Italia e in Europa perdiamo. Difficile non perdere quando il mercato precipita. Per fortuna le cose vanno bene nel resto del mondo. La Libia è un problema grosso: c’è una situazione caotica, ma io voglio essere ottimista. I libici sono una popolazione pacifica: in qualunque altro luogo al mondo con almeno un Kalashnikov per famiglia, con poca polizia e senza esercito, la situazione sarebbe peggiore di quella che si vede oggi in Libia. Certo, ci vuole un esercito, servono istituzioni, vanno contenute le spinte centrifughe. Serve un’iniziativa comune: ci vorrebbe un inviato speciale dell’Europa, che potrebbe essere un italiano. Certamente godrebbe del pieno appoggio degli Usa che sono alla ricerca di una strategia per quell’area».
L’Eni e le difficoltà dell’Italia. Per migliorare i conti pubblici qualcuno vorrebbe vendere un altro pacchetto delle vostre azioni oggi detenute dal Tesoro.
«Mi occupo di quello che succede in Eni. Queste sono decisioni che vengono prese dai miei azionisti, che non sono di mia competenza. Noto solo che investire in Eni rende il 6%. Se il governo vende quote del gruppo migliora il debito, ma il deficit sale».