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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

IL COMMISSARIO COTTARELLI CHE SALE DAL FONDO “LA MIA SPENDING REVIEW SENZA TAGLI LINEARI”


Niente cellulare, niente segretarie, niente filtri. È mercoledì sera, il 2 ottobre «storico » in cui è successo di tutto in Parlamento. Carlo Cottarelli, chiamato semplicemente attraverso il centralino del Fondo Monetario Internazionale di cui è direttore per gli Affari Fiscali, come dire la più importante divisione dell’istituto di Washington, risponde al primo squillo. Del resto, è un’abitudine: da moltissimi anni («25 per la precisione ») è lui il punto di riferimento per i giornalisti, non solo italiani. Sempre sorridente, tranquillo, disponibile. E ovviamente documentato: il 9 ottobre, un giorno prima dell’apertura dell’assemblea del Fondo, dovrebbe essere lui a presentare l’attesissimo Fiscal Monitor Report, il punto annuale dell’Fmi sullo stato di salute delle economie pubbliche. Così è scritto sul programma ufficiale, ma il condizionale è d’obbligo, gli diciamo come per provocazione: il premier Enrico Letta l’ha indicato con nome e cognome come commissario per la spending review, proprio una delle parti più qualificanti del suo “secondo programma elettorale” con cui ha riconquistato la fiducia. E infatti Cottarelli, dall’altra parte del filo, ha un momento di silenzio. Non imbarazzato, anzi assolutamente sereno. «Senta, cosa devo dirle? È un grandissimo onore solo il fatto che abbiano pensato a me». Altro non può aggiungere, neanche un “cercate di capirmi”
che è implicito. Solo una cosa: adesso che il governo è più forte, il suo incarico è, come dire, più sicuro? «Il fatto che il governo sia più forte è un bene innanzitutto per l’Italia». Realisticamente, Cottarelli dopodomani a Washington ci sarà, perché non è il tipo che vuole creare imbarazzi lasciando un sostituto da trovare in quattro e quattr’otto. Ma subito dopo prenderà l’aereo per Roma. Il suo contratto è pronto da settimane, ora che è passata l’incertezza sul destino del governo (che era l’unico fattore che l’aveva rallentato) non c’è più nessun ostacolo salvo un rapido passaggio parlamentare di conferma. È pronto l’ufficio in via XX Settembre, a fianco dell’amico di una vita Fabrizio Saccomanni. È in via di rapida formazione lo staff. Perfino i suoi obiettivi sono predefiniti: realizzare un risparmio da almeno 4-5 miliardi di spesa pubblica nel 2014, cifra progressivamente da ampliare negli anni successivi. Perché il suo compito sarà difficile proprio per il doppio binario su cui è instradato: intervenire con rapidità per identificare e risolvere gli sprechi da correggere subito su un moloch da 807 miliardi l’anno, ma soprattutto agire in via strutturale per impostare sul medio termine una politica di spesa pubblica meno dispersiva, più controllata e razionale. Il tutto abbandonando definitivamente la pratica dei tagli lineari o semilineari che tanti scompensi ha provocato in settori cruciali quali l’educazione o l’assistenza sanitaria (dove pure da tagliare ce n’è, eccome). Il termine spending review lo introdusse nel vocabolario politico italiano Tommaso Padoa Schioppa nel 2007. Il non dimenticato ministro del Tesoro dell’ultimo governo Prodi la presentò con parole molto simili a quelle che Letta ha pronunciato mercoledì al Senato: «Non esistono tagli di spesa facili, la revisione va fatta con accortezza, attenzione, competenza». Principi accolti solo in minima parte dal suo successore Giulio Tremonti, e ripresi ma non del tutto neanche da Vittorio Grilli, a sua volta responsabile dell’Economia con il governo Monti. Che nominò per la prima volta un commissario ad hoc nella figura di Enrico Bondi, il glorioso risanatore di Montedison e Parmalat. Il quale però si trovò, spiegano gli esegeti dell’alta burocrazia ministeriale, «in una condizione identica a quella in cui era finito a Collecchio: proprio quando stava per andare a costruire una maxi-fazenda in Brasile per risanare definitivamente il gruppo, i francesi di Lactalis gli hanno tolto il terreno sotto i piedi». In questo caso non sono stati i francesi, ma sta di fatto che Bondi doveva risparmiare 26 miliardi in tre anni, quando fu nominato nel maggio 2012, invece ha avuto appena il tempo di avviare il lavoro. Probabilmente, la parte più preziosa di quella fase è il documento redatto da Piero Giarda, ministro per i rapporti con il Parlamento dello stesso governo Monti, che ha fotografato i punti più critici. E così arriviamo all’oggi. «Abbiamo perso fin troppo tempo», ha detto Letta sempre mercoledì a proposito della spending review. «Il livello complessivo della spesa pubblica deve essere invece al centro dell’azione di bilancio ». Di qui l’accelerazione e la fiducia incondizionata in Cottarelli. Classe 1954, laurea in economia a Siena e master alla London School of Economics, il neocommissario entrò nel 1981 in Banca d’Italia come funzionario della divisione “Settori monetari e finanziari”. Dopo sei anni fu chiamato da Franco Reviglio, che assommava le cariche di presidente e Ceo, a capo dell’ufficio studi dell’Eni. Dopo neanche un anno però scelse la via del Fondo Monetario. Vi entrò nel 1988 e da allora ha ricoperto una fitta serie di posizioni, dal dipartimento “Strategie, sviluppo e revisione delle politiche” a quello “Mercati finanziari e monetari”, da quello “Europa” di cui è stato vicedirettore, fino all’incarico attuale che ha assunto nel novembre 2008 e che l’ha portato a conoscere alla perfezione i conti pubblici di ognuno e quindi anche dell’Italia. In tutti questi anni, Cottarelli ha scritto e coordinato programmi di finanziamento del Fondo per un’infinità di nazioni: Croazia, Russia, Turchia, Ungheria, Libano, Russia, Turchia, Serbia, Tajikistan, e altri ancora. Non solo Paesi in via di sviluppo, perché ha predisposto piani di assistenza e consulenza per il Regno Unito e anche l’Italia. Dove è sempre tornato volentierissimo, anche se, come ha confidato più volte nelle lunghe serate delle assemblee del Fondo, «Washington è un posto fantastico per vivere». Che Cottarelli abbia voluto restare ben presente nel dibattito politico nostrano anche da oltreoceano, del resto, è testimoniato da parecchi suoi interventi, che si sono intensificati negli ultimi mesi. Con tutta la cautela dei tecnocrati di scuola Bankitalia, per esempio, ha più volte ripetuto che per il nostro Paese è fondamentale non solo ridurre la spesa ma soprattutto distinguere fra gli investimenti “buoni” come quelli per le infrastrutture, la scuola, l’università, la formazione professionale, e i «trasferimenti a pioggia». Le prove di spending review finora effettuate hanno fatto capire, è il Cottarelli- pensiero, che c’è bisogno di «solidissimi accordi bipartisan in grado di reggere per molti anni ». Nel maggio scorso poi ha detto, in occasione delle riunioni di primavera del Fondo, che «il grosso dell’aggiustamento fiscale in Italia è stato fatto» e si è spinto fino ad approvare lo spostamento del carico fiscale dall’Irpef all’Iva, sempre nel presupposto che le risorse trovate con quest’ultima tassa, perno della discordia negli ultimi giorni, vengano realmente accreditate alla riduzione del carico sul lavoro. Insomma un crescendo di posizioni, culminate nell’ultimo esplicito rapporto “Article IV” sull’Italia dell’Fmi, quello al quale Letta si è ispirato per la sua “teoria del cacciavite” e che è il preludio al Fiscal Monitor che presenterà questa settimana: «Serve una revisione della spesa pubblica da cima a fondo per trovare i fondi che consentano di abbassare le tasse». Ora Cottarelli è chiamato a tradurre in realtà queste opinioni.