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 2013  ottobre 07 Lunedì calendario

BENVENUTI IN OLIGARKHIJA, REGNO SENZA LEGGI E CONFINI


Oligarkhija è il favoloso regno sovranazionale dei miliardari russi che dispongono di sterminate ricchezze, concentrate per lo più nei paradisi fiscali, nel Montenegro, in Israele, in Svizzera, ancora a Cipro nonostante la crisi, a Singapore, in Austria e in Gran Bretagna. Un regno di illimitate pretese. Infatti Oligarkhija è sempre in espansione: non passa giorno senza che un oligarca russo acquisti una proprietà oltre i confini della Santa Madre Russia. Case a Parigi. Terreni in Sudamerica. Vigneti di Chablis in Francia. Ville sul lago di Como. Grattacieli a Panama. Aziende negli Stati Uniti.

E isole in Grecia. Come Skorpios, nel mar Ionio, rifugio dorato di Onassis e Jackie Kennedy. Un colpo da 100 milioni di dollari scuciti senza batter ciglio dall’avvenente e giovanissima Ekaterina Rybolovleva, ventiquattrenne figlia di Dmitri Rybololev, 46 anni, il cui patrimonio ammonta a 9,1 miliardi di dollari. Originario di Perm, negli Urali, Rybolovlev deve la sua fortuna alla Uralkali, mega-società di fertilizzanti con capitale di 35 miliardi di dollari.

Il tipico atteggiamento di un oligarca che si rispetti è quello di alternare affari sul filo del rasoio e vizi da satrapo. Il buon Dmitri si è tolto lo sfizio di regalarsi in Florida la faraonica villa che fu di Donald Trump, pagata 95 milioni di dollari. Fanatico di calcio, si è comprato l’As. Monaco, allenato da Claudio Ranieri, attualmente in testa al campionato francese con il Paris St. Germain degli sceicchi qatariani. In tanto profano, un pizzico di sacro: ha finanziato la costruzione di una cattedrale ortodossa russa a Cipro dedicata a san Nicola. Insomma, un perfetto oligarca di seconda generazione. Quella che non pesta i piedi a Putin, come invece osarono Boris Berezovskij, eminenza grigia del presidente Boris Eltsin, trovato impiccato nel bagno della sua casa di Ascot il 23 marzo scorso, e Mikhail Khodorkovskij, in galera da dieci anni.

Affari sul filo del rasoio
Per sopravvivere nel difficile mare di Oligarkhija bisogna saper navigare con accortezza, spiegò una volta il magnate del nickel Vladimir Potanin, altro tycoon di peso (14,5 miliardi di dollari in tasca, al quarto posto nella classifica dei russi più ricchi). É presidente della Interrot Holding, con interessi vastissimi nei metalli e nelle banche. É stato protagonista di una cruenta battaglia tra la Norilsk e la Rusal. In un’intervista del 1998, a chi gli chiedeva in che cosa consistesse il suo potere di oligarca, rispose: “Quale potere? Io non posso distruggere lo Stato. Ma lo Stato può distruggere me”. A differenza di Rybolvlev, si è dato alla beneficenza e partecipa alla campagna The Giving Pledge lanciata da Bill Gates e Peter Buffett, i più ricchi dei ricchi, assicurando - ma sarà poi vero? - che si impegnano a donare la metà del proprio patrimonio.

Chi invece non ci pensa affatto è Igor Sechin. Protagonista qualche mese fa di un blitz finanziario in Italia. Amministratore delegato del colosso petrolifero Rosneft (leader mondiale energetico), è accompagnato dall’inquietante soprannome di “uomo più spaventoso del mondo”. Un po’ per il suo aspetto fisico non proprio friendly, un po’ per il devastante ed occulto potere: ex ufficiale del Kgb, è di Pietroburgo come l’amico Putin di cui è stato consigliere fin dai primi tempi della sua scalata al Cremlino. Nessuno, meglio di Sechin, rappresenta la personificazione dell’oligarca-manager di Stato. Ebbene, Igor il terribile è planato in Italia e ha rilevato il 21% della Saras, la compagnia petrolifera dei Moratti. Una partnership che è stata subito definita dagli esperti piuttosto “ingombrante”. Perché dietro la Rsoneft si individua la lunga mano del Cremlino.

E qui ritorniamo a Oligarkhija. Oggi come oggi ha per capitale Mosca, con tutto quello che geopoliticamente significa, e per capitali un decimo del denaro mondiale. Secondo recenti stime del centro di ricerche statunitense Global Financial Integrity di Washington dal 1994 al 2011 in Oligarkhija c’è stato un flusso finanziario illecito di 764 miliardi di dollari (552,9 in entrata, 211,5 in uscita). Questa massa imponente di quattrini ha alimentato (e continua a farlo) un’economia in nero che non conosce crisi e che è valutata al 35% del prodotto interno lordo russo. A proposito di Cipro, il Gfi definisce l’isola un’autentica “lavatrice del denaro sporco russo”. Dunque, la principale dependance di Oligarkhija, prima sua sorgente e destinazione degli investimenti diretti russi all’estero. Un estero che per Oligarkhija non ha confini, poiché il suo territorio virtuale si estende in ogni dove. La città in cui si concentra il più alto numero di miliardari russi infatti non è Mosca bensì Londra, tanto che ormai viene chiamata Londongrad: i russi, si lamentano i giornali britannici, l’hanno invasa e oggi sono più di 400 mila quelli che ci vivono, per scelta o per necessità. I magnati sono stati subito accettati dalla upper class inglese.

Il più noto di costoro è Roman Abramovic, proprietario della squadra di calcio Chelsea dal 2003: ha comprato appartamenti, case, ville, castelli, yachts, aerei. É lì che gestisce il suo impero internazionale.

Zar di Oligarkhija si è autonominato l’autoritario Vladimir I°, al secolo Vladimir Vladimirovic Putin, eletto tre volte alla presidenza della Russia: alla testa del Paese dal 2000 - se si esclude il mandato interinale del “delfino” Medvedev - ha ripreso il controllo dell’economia nazionale. Con il pugno di ferro. Per educare gli oligarchi “della prima generazione”, ossia quelli delle selvagge privatizzazioni statali dell’era Eltsin, al nuovo corso del Cremlino, ha messo kappaò il più ostile di loro, Mikhail Khodorkovskij, con un arresto tanto spettacolare quanto drammatico e costretto all’esilio il più insidioso, Boris Berezovskij. Dopo di che ha rinazionalizzato le imprese considerate strategiche (petrolio, materie prime, aeronautica, apparato militare-industriale) e ha piazzato i suoi uomini, quasi tutti ex agenti dei servizi segreti come lui, alla testa delle società. Gli oligarchi hanno dovuto adeguarsi. I più docili sono stati adottati dal Cremlino e hanno consolidato i loro imperi. Con una variante, tipica peraltro dei fratelli coltelli. L’attualità oligarchica vede un nuovo livello di scontro. Da un lato, il cospicuo gruppo filoputiniano. Dall’altro, quello filomedvediano. Uno psicologo direbbe: la rivolta del figliol prodigo. Lotta intestina. Putin predica l’egemonia totale. Medvedev, che non ha militato nel Kgb e tantomeno si considera un siloviko, ossia un uomo delle strutture di potere (militari, polizia, dogane), ma un liberal.

Le fazioni contrapposte
Non ha grandi speranze. Gli oligarchi putiniani sanno benissimo che il loro destino è legato a doppio filo a quello del Cremlino. Tra i seguaci di Medvedev spiccano i bagatil, i ricconi del Daghestan , perché la moglie del suo braccio destro Arkadij Dvorkovich proviene da un potente clan della repubblica caucasica.

Un episodio che ha messo a nudo il dissidio fra i gruppi di pressione economici putiniani e medvediani riguarda i contratti olimpici per i Giochi Invernali di Soci del 2014. Durante un’ispezione agli impianti, in diretta tv Putin ha criticato aspramente i lavori eseguiti dall’impresa dei fratelli daghestani Akhmed e Magomed Bilalov: i costi del trampolino olimpico si erano moltiplicati. Temendo di finire in gattabuia, i fratelli Bilalov hanno preferito trovar rifugio all’estero. I filomedvediani hanno gridato alla trappola. Fatto sta che gliene è capitata un’altra. Il caso UralKalium, il più grande produttore mondiale di potassio, nelle mani di Suleiman Kerimov, un altro riccone di Daghestan (nella top ten dei miliardari russi, patron della squadra di calcio Anzhi dove militava Eto’o). I putiniani hanno giocato in modo assai sofisticato contro di lui, coinvolgendo persino il presidente bielorusso Aleksandr Lukashenko tramite la BelarusKalium, partner-concorrente minore di UralKalium. Kerimov, da vecchia volpe, si è tirato fuori, cercando di restare equidistante ed evitare così di rimanere travolto dalla faida. E pensare che solo due anni fa, in una riunione molto riservata, il “delfino” Medvedev pensava di potercela fare contro Putin, al punto da convocare in una riunione a porte chiuse i dirigenti di 27 grandi imprese. Il succo dell’incontro fu: “Siete con me o con Putin?”. Con te, caro Dmitri, gli disse Alisher Usmanov, il numero uno di Oligarkhija (“vale” 17,6 miliardi di dollari, è il padrone dell’Arsenal, interessi in Twitter e Facebook, è suo il quotidiano economico liberale Kommersant che spesso fa le pulci alla politica del Cremlino), sai quanto desideri una Russia più libera, più moderna, più occidentale, più tecnologica. Ma non tutta: Oligarkhija è... oligarchica.