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 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

«I NUMERI SONO OGGETTIVI MA NON PREDICONO TUTTO»

[Intervista a Nate Silver] –


Blazer nero, mocassino in pelle, camicia a mi­croscopici quadretti ros­so fiammante. Look da ragazzo della Milano bene anni Ottanta su un faccino da nerd. Im­merso nella bolgia di giornalisti e guru dell’informazione globale invitati al Festival di Internaziona­le a Ferrara, dove lo abbiamo in­contrato. A vedere per la prima volta Nate Silver - il 35enne che quando ne aveva 30 ha scommes­so che con il suo blog «FiveThir­tyEight » avrebbe azzeccato il vin­citore delle elezioni americane e ci è riuscito; che nel 2010 è stato «comprato» insieme al suo blog dal colosso New York Times e ne ha incrementato il successo onli­ne del 15%; che tre mesi fa ha pre­so su il suo blog e se n’è andato dal colosso NYT sbattendo la porta ­ecco, a guardare Nate Silver per la prima volta si è conquistati dalla sua simpatia. La stessa che ha tra­volto i primi fan di Steve Jobs. L’opposto dell’invidia che ha irre­tito gli amici- nemici di Mark Zuc­kerberg.
Silver, auto­re di Il segnale e il rumore: ar­te e scienza del­la previsione ( Fandango, pagg. 672, eu­ro 24,50, trad. M. Giffone, in uscita il 7 otto­bre), 200mila copie vendu­te negli Usa, appartiene a quella catego­ria di intelligenze singolari,
capar­bie e solitarie sfornate negli Stati Uniti dalla Silicon Valley in poi e che si sono applicate a far sì che il digitale, nei contenuti e nella for­ma, conquistasse il mondo. Intel­ligen­ze che nel suo caso si sono ri­solte in un binomio quanto mai af­fascinante: pokerista e statistico. Ha vinto con il poker online 400mila dollari per creare un siste­ma previsionale per il baseball. Poi ha pensato di usarlo per le ele­zioni politiche. E non ha smesso di giocare.
Ci dica subito se conosce il mo­do per vincere a poker.
«Le posso dire perché si perde. La gente guarda il poker alla tv e pensa che sia un gioco psicologi­co. Ma è un gioco matematico: 10% di elementi psicologici, 90% di analisi logico-statistica, proba­bilità, percorsi deduttivi e un sac­co di possibilità che si possono analizzare. Descriverlo è molto più complicato che farlo. Però si può fare. Invece la gente va al casi­nò e pensa davvero che potrebbe vincere basandosi sull’intuizio­ne ».
Viviamo nel caos, i numeri po­trebbero semplificarci la vita. Invece li rifiutiamo. Perché?
«Non riusciamo a sconfiggere l’impulso a doverci sempre spie­gare il perché delle cose. Prenda le religioni. Vogliono spiegare il mondo e quindi semplificarlo, metterlo alla portata di tutti. Ma la semplificazione non ha nulla a che fare con la realtà. Il mio libro cerca di riportarci sulla terra, con un po’ di umiltà. E quindi, a sua volta, non è utilizzabile per capire l’universo».
Per predire il suo futuro usa la statistica?
«La statistica ha successo per­ché fa presumere a chi non la co­nosce che potrà capire più veloce­mente che cosa gli accadrà e più velocemente decidere. Gli ameri­cani ormai chiedono solo veloci­tà, masticano velocità, salvo poi non saperla gestire. In Italia se un appuntamento è alle tre e sono già le tre e mezza vi prendete an­che un caffé e ve lo godete pure».
Disapprova?
«Per niente. Mi si adatta alla per­fezione. Io non amo vivere veloce­mente: quando prendo decisioni importanti ne parlo con gli amici, invece di correre dappertutto in cerca di consulenze. Per scrivere il libro ci ho messo tre anni e mez­zo, per lasciare il NYT sette mesi».
Ecco, il NYT ... Se n’è andato per sentirsi ancora un giovane indipendente?
«Non è stata una scelta filosofi­ca, ma di business. Ho creato il blog per dimostrare che si può fa­re business sostenibile, pagare la gente che lavora per te grazie ai tuoi profitti. Ma al NYT il manage­ment è incapace, al contrario dei giornalisti. E se continua così il giornale andrà sempre peggio».
Molti dicono che il giornali­smo di carta è morto. Lei che cosa prevede?
«Negli Usa il giornalismo è di­ventato gossip o political insider. La gente chiede una interpretazio­ne della verità. Ma per ottenerla ci vuole trasparenza e capacità di analisi. Il reporting continuerà, il giornalismo invece è cambiato per sempre.Nei prossimi vent’an­ni prevedo che New York Times , Washington Post ,Wall Street Jour­nal e altre grandi testate potran­no sopravvivere. Terrà duro an­ch­e il giornalismo scientifico e al­tamente specializzato. Ma in mez­zo non rimarrà nulla».
E il futuro della statistica?
«Eccellente.C’è sempre più do­manda di statistici. E rimarrà una domanda con­tinua. Il mio pubblico è fat­to di gente che attraverso le storie vuole co­noscere la veri­tà, gente più giovane di quella che di solito legge i giornali e a cui non basta la “copertura”in­formativa sul­la politica per capire ciò che accade. Il mer­cato­chiede nu­meri e dati e so­lo gli statistici possono dar­glieli ».
I numeri so­no sempre oggettivi?
« Diciamo che se ci sono molti dati - da­tabase numeri­ci e ricorrenze temporali - su cui ragionare, il livello di affi­dabilità di una previsione è al­to. Inoltre, se effettuiamo analisi su beni semplici che prevedono scelte precise, è probabile che questi sia­no rivelatori di altre variabili di scelta legate una personali­tà, che è una realtà complessa. Al­lo stesso tempo, avere più infor­mazioni non sempre ci permette di fare previsioni più accurate. Esi­ste sempre la possibilità che il tut­to si incasini. Ci sono cose, come spiego nel mio libro, che al mo­mento possiamo prevedere con buone probabilità di successo. Il tempo, ad esempio».
Ma è il denaro a far girare il mondo.
«Il prezzo delle azioni e in gene­rale l’andamento dell’economia sono tra le nostre peggiori perfor­mance predittive. Crediamo di es­sere bravi a farci previsioni per­ché hanno a che fare con i nume­ri, ma se i numeri non sono strut­turati secondo ricorrenze non so­no affidabili. L’ultima crisi finan­ziaria è un evento “unico” nella storia per dinamiche».
Ancora numeri. Ma qual è il contrario dei numeri?
«Qualcuno direbbe che è l’intui­zione. Ma la domanda è troppo fi­losofica per avere una sola rispo­sta».