Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  ottobre 07 Giovedì calendario

LA MARCIA INARRESTABILE DI PAMICH •


Nelle lunghe memorie di vita, conserva un posto di rilievo per Ercole Tudoni, il dipendente dell’Atac romana che trasse da inesauribili risorse morali tempo ed energie per organizzare annualmente due fra gli appuntamenti classici del calendario internazionale della marcia, specialità che proprio sulle strade della Capitale visse, a partire dagli inizi pionieristici di primo Novecento, le sue stagioni più vitali: il Giro di Roma e la Roma-Castelgandolfo. L’uomo della memoria è Abdon Pamich, olimpionico ai Giochi di Tokyo del 1964, una carriera ultraventennale sulle strade del mondo, dodicimila chilometri l’anno in piena attività, passo dopo passo, il giro dell’Equatore doppiato cinque, sei volte, in quella che si volle definire, in Italia come in Svezia, in Germania, in Messico o in Giappone, pratica francescana dello sport per dannati di strada e fachiri della fatica, durante la quale un atleta torna spesso bambino con la voglia di piangere.

Pamich ha compiuto ottanta anni qualche giorno fa, a Roma. Il 18 di questo mese, l’istituzione atletica federale e vecchi amici della specialità gli dedicheranno una mattinata di festa nell’anniversario dell’affermazione giapponese, suo terzo tentativo olimpico dopo Melbourne 1956, quarto posto sulla 50 chilometri e undecimo sui 20, e Roma 1960, medaglia di bronzo nella gara lunga dominata - nell’assolato itinerario che il 7 settembre condusse gli atleti dallo stadio Olimpico fino ad Acilia e ritorno, lungo la via del Mare - da un piccolo occhialuto funzionario assicurativo di Cranford, ovest di Londra, Donald James Thompson, acclimatatosi, in vista del prevedibile caldo romano, avendo fatto del proprio bagno una sorta di sauna artificiale a quaranta gradi centigradi.

Abdon Pamich, istriano di Fiume, padre dottore commercialista, ebbe adolescenza sofferta, fuggendo dalla Iugoslavia delle Stelle Rosse di Tito insieme con il fratello Giovanni nel settembre del 1947, attraversando territori e genti a rischio, trovando generoso rifugio nella solidarietà d’una anonima coppia di triestini che li sottrasse al peggio dichiarandoli agli aguzzini propri figli, approdando infine in un gelido ed ostile campo profughi di Novara, vivendo esperienze atroci identiche a quelle vissute da centinaia di migliaia di istriani e dalmati, ovunque considerati reprobi e stranieri in patria. Nel 1950, Genova atletica accolse il diciassettenne Abdon, mentore e tecnico l’ex marciatore Giuseppe Malaspina. Nel 1954, prima presenza, settimo a Berna sui 50 chilometri, che rimarrà inalterata distanza preferita, ai campionati europei. Sono anni ancora dominio mai scalfito di Pino Dordoni, «l’uomo solo al comando» per tanti anni, un titolo europeo nel 1950 a Bruxelles e olimpico due anni dopo ad Helsinki, con il nome del piacentino inciso sul muro, come accadrà per Pamich dodici anni dopo sull’impianto giapponese. La marcia di Dordoni è marcia allo stato puro, una categoria estetica, mai vista prima, mai vista dopo. Quel passo, Abdon Pamich trasformerà in potenza, nulla concedendo alla fatica.

Quattro anni dop

o, agli Europei di Stoccolma del ’58, medaglia d’argento, premessa per il terzo posto all’Olimpiade romana. Dopo i Giochi di Roma, la marcia dell’atleta fiumano diventa inarrestabile. Quattro stagioni mirabili, primati mondiali sui 50 chilometri e sulle 30 miglia nel novembre 1961 sulla pista dell’Olimpico, titolo europeo nel 1962 a Belgrado, affermazione olimpica nel ’64 a Tokyo, secondo titolo continentale nel ’66 a Budapest. Prima, durante e dopo, fino al 1973, un numero chilometrico di affermazioni sulle strade internazionali e nazionali, comprese tre vittorie ai Giochi del Mediterraneo, quaranta titoli nazionali, la Coppa del mondo di Lugano, 3 Praga-Podébrady, 12 edizioni del Giro di Roma, 10 nella Roma-Castelgandolfo. Simbolo di una carriera, nel ’72, cerimonia di apertura dei Giochi di Monaco, la bandiera tenuta in alto, primo dei 224 compagni di squadra.

Cosa ha lasciato, come testimonianza della sua vita agonistica, Abdon Pamich da Fiume - lauree in psicologia e sociologia, una splendida moglie e due figli - oltre l’invito a cancellare dal vocabolario dell’atleta, come dichiarò tempo addietro al maestro di giornalismo Vanni Lòriga, la retorica del «sacrificio»... il suo messaggio sul senso dello sport: «Il risultato ha rappresentato per me un punto di partenza e non di arrivo. Questa la filosofia che fin dall’inizio ha guidato la mia carriera agonistica. Finita una gara, pensavo già alla successiva, e tanto peggiore era lìesito tanto più attendevo con impazienza la possibilità di mettermi alla prova, unico avversario da battere, me stesso, perché innalzare i propri limiti è molto più importante che vincere».