Osvaldo Guerrieri, la Stampa 07/10/2010, 7 ottobre 2010
MALAPARTE IN CINA VE LO DO IO JACOPONE
Fra le innumerevoli contraddizioni di Malaparte doveva esserci anche questa: scrivere per l’Unità e per altri giornali fiancheggiatori del comunismo nonostante l’avversione ufficiale del Pci. Fu in questa fase, verso i primi anni Cinquanta, che Malaparte si scontrò con Davide Lajolo, all’epoca direttore dell’edizione milanese dell’Unità. Lajolo aveva rilanciato le affermazioni gramsciane contro Malaparte e Malaparte lo aveva sfidato subito a duello. Lajolo, solido uomo di Langa insensibile ai facili effettismi, gli contropropose una gara pubblica di ceffoni in piazza Duomo. Dopo questo scambio di sfide e di controsfide, Malaparte andò a trovare il rivale in redazione. I due ebbero un franco colloquio e uscirono tenendosi a braccetto. Lajolo ricorderà l’amico come «un uomo dal fascino eccezionale, era il qualunquismo portato all’ultima potenza dell’intelligenza, era un genio».
Sempre assetato di denaro, Malaparte scriveva sui giornali più disparati. Non poteva rientrare al Corriere, poiché alla direzione amministrativa si era installato quel Colli con cui aveva litigato alla Stampa, e allora accettò di scrivere per Il Tempo di Renato Angiolillo. Inviò dal Cile una serie di articoli e un altro reportage fece in Unione Sovietica, ma da qui, senza informare nessuno, men che meno Angiolillo, scrisse sei articoli anche per Vie nuove, il settimanale del Pci diretto da Maria Antonietta Macciocchi, che tardò a pubblicarli temendo la reazione dei dirigenti del partito. Naturalmente, senza tradire la sua fama di trasformista e di opportunista, sul Tempo Malaparte scriveva una cosa, su Vie nuove l’opposto. Nel ’56 le truppe sovietiche invasero l’Ungheria, ma su Vie nuove Malaparte non pubblicò una sola riga, preferì parlare d’altro con questa giustificazione: «Era un momento in cui nessuno osava parlar bene della Russia, e ho pensato fosse bene, in quel momento, scriver bene della Russia».
In quello stesso 1956 Malaparte ricevette un invito per il viaggio più desiderato. Finalmente poteva andare in Cina, visitare l’immenso paese protagonista di un nuovo riscatto sociale, di una nuova visione dell’uomo, del lavoro, forse della civiltà.
Ufficialmente andava in Cina per commemorare un poeta di cui non aveva mai sentito parlare, ma l’occasione era troppo ghiotta per lasciarsela scappare. Ne parlò così con Indro Montanelli, incontrandolo in un albergo:
«Proprio te. Mettiti a sedere, e senti se è poco bella».
Ricordò Montanelli: «Trasse di tasca alcune cartelle dattiloscritte e cominciò a leggermele. Era, come al solito, un eccellente scampolo di prosa, pastosa e colorata, ma riguardava un poeta cinese che non avevo mai sentito rammentare.
“Come!?” fece, indignato. “È famoso… Non lo conosci?”
“No”.
«Mi guardò con aria di riprovazione, poi ammise, stringendosi nelle spalle: “Be’, a dire il vero, non l’avevo mai sentito rammentare neanch’io, fino a qualche giorno fa… Ma cosa vuoi? Se lo confessavo, saltava subito su qualche altro a dire che c’era stato a balia insieme, e l’invito per andare a commemorarlo a Pechino toccava a lui… Io lo so come fanno ‘quelli’: ti dicono che hanno rinunziato, e hanno già il biglietto in tasca… Eppoi, cosa vuoi, ormai sono andato fino a Londra, per documentarmi su questo versaiolo”».
«Fino a Londra?» esclamò Montanelli.
«Erano anni che non ci mettevo piede, e m’hanno fatto un monte di feste. Ma m’è successo un incidente. A un pranzo in mio onore all’Associazione degli scrittori, figurati, il presidente s’alza e pronunzia il brindisi di benvenuto con queste parole: “Bevo alla salute del nostro ospite italiano, sebbene sia personalmente convinto che gl’italiani sono delle canaglie: tutti, nessuno escluso…”. Io rimango impassibile, poi a mia volta mi alzo, e pronunzio il brindisi di risposta, guardandolo dritto negli occhi: “Bevo alla salute dei miei anfitrioni inglesi, perché sono personalmente convinto che gl’inglesi sono dei gentiluomini: tutti, escluso uno…”».
Montanelli vide che Malaparte, via via che parlava, lo fissava e sembrava a disagio.
«E va bene» disse, «lo so… Lo so che questa storia non è successa a me ma a Talleyrand…».
«Ero presente quando te la raccontò Longanesi a Milano, l’anno scorso…».
«Sì, ma non è una buona ragione per ricordarmelo. Io, se me l’avessi riraccontata tu attribuendola a te stesso, avrei fatto finta di non saperla. Questo è ciò che gl’inglesi chiamano fair play. Ma tu sei di Fucecchio…».
«Senti un po’, Curzio: tutta questa faccenda del poeta cinese e del viaggio a Pechino non te la sarai mica inventata da capo a piedi per attribuirti l’aneddoto di Talleyrand?».
«Noooo!» fece lui, sinceramente scandalizzato. «A Londra non ci sono stato, ma a Pechino ci vo davvero… Te l’ho perfino letta, la commemorazione, cioè il prologo… Bello, eh?… Quel parallelo con Jacopone da Todi t’è garbato?».
«Molto. Ma hanno veramente qualcosa in comune?».
«Questo non lo so perché non conosco il cinese. Ma non lo possono sapere neanche i cinesi, perché a loro volta non conoscono Jacopone…».
Fu così che partì. Convinto di trovarsi in un paese «giusto, libero, buono, sano», Malaparte intervistò Mao Tse-tung e lo trovò «privo di faziosità, di fanatismo». Si inoltrò nelle contrade più remote, osservando le «migliaia di uomini con bilanciere sulle spalle, curvi sotto il peso di due ceste cariche di pietre, vanno per miglia e miglia, trottando, a portar pietre alle fornaci di calce». Lo spettacolo lo fece rabbrividire, gli scatenò quel senso del peccato originale collettivo che, secondo lui, aveva prodotto tutte le storture del mondo. Viaggiava, osservava, annotava. Gli scattò immediato il progetto di scrivere un libro intitolato Io amo la Cina, ma dopo un po’ cominciò a sentirsi male. Non stava bene da tempo. Ma questa volta si sentiva peggio del solito, la febbre non lo abbandonava, arrivava a sera esausto, aveva l’impressione di continue coltellate alla schiena. Nevrite, pensò, la solita, maledetta nevrite che curava con l’aspirina. Ma quando fu ricoverato in ospedale nessuno parlò di nevrite. Cancro, fu la diagnosi, in stato troppo avanzato per poter essere curato. Era l’11 marzo ’57 quando, scortato da due medici cinesi, Malaparte sbarcò da un aereo speciale all’aeroporto di Ciampino. Aveva la bocca bendata da una mascherina di garza. Appariva spaventosamente magro.